Better Man è la mia Costante

ME, MYSELF & BETTER MAN: LA MIA STORIA SULLE NOTE DI BETTER MAN
DI ALICE MISCEO | FOTO: HENRY RUGGERI | 18 OTTOBRE 2018

Sono cresciuta in una famiglia dove la musica – un certo tipo di musica – circolava con frequenza e verso la quale c’era reale e profonda dedizione. A tre anni mio padre mi mise le mani su un pianoforte, uno Stroud del 1868 ormai vergognosamente scordato e con il rullo fuori uso (non che ne abbia mai fatto granché, del rullo) che fa ancora la sua porca figura nel corridoio di casa di mia madre, nonostante la vita mi abbia portata lontana da quei tasti e io sia rimasta, di fatto, una chiavica di pianista.

Si ascoltava soprattutto cantautorato, folk rock, qualche ventata di Creedence e Procol Harum (A Whiter Shade of Pale è il mio primo ricordo musicale in assoluto), diciamo che da bambina mi erano stati gettati diversi semi.

Better Man l’ho conosciuta nel 2000, che poi è l’anno in cui ho conosciuto i Pearl Jam. Avevo quasi sedici anni, ero in piena transizione musicale e, dopo aver abbandonato la fase bimbaminkia in formula definitiva, stavo cominciando ad approcciare timidamente il mondo delle riviste musicali in cerca di qualcosa che toccasse le corde giuste.

C’era già Internet, ma le finanze familiari erano quelle che erano, gli unici computer che vedevo gravitavano giusto nella scassinata aula di informatica della mia scuola e l’analogico, almeno a casa mia, la faceva ancora pesantemente da padrone. I soldi che racimolavo con il lavoro estivo li spendevo in dischi e tra gli acquisti del 2000 c’era Binaural, mi piaceva Nothing As It Seems e lo portai a casa. Lo ascoltai forse tre volte, poi lo rimisi a posto. Non era il momento, probabilmente non era il disco giusto e non avevo ancora i fondamentali.

Più o meno nello stesso periodo in una copia di Rock Sound trovai un cd allegato, sulla cover campeggiava Ed Vedder con chitarra. Era una raccolta di pezzi live di vari artisti, la prima traccia una versione acustica di Better Man tratta dal Bridge School Benefit dell’anno precedente. Binaural continuò a rimanere al suo posto per parecchio tempo, quella traccia 1, invece, la consumai all’inverosimile, mi faceva impazzire e ne ero profondamente affascinata. In quel periodo e negli anni immediatamente successivi, nelle playlist casalinghe che componevo per i viaggi, per l’autoradio, per le camminate in solitaria, spesso e volentieri patchwork senza senso di diversi generi (sempre grazie a mio padre mi ero ritrovata con una pila di musicassette piene di storia del rock che riproducevo a nastro – letteralmente – per assimilarne il contenuto e cercare una strada che potesse essere la mia; al tempo ero capacissima di passare dai Dead Kennedys a Joni Mitchell in un amen), Better Man c’era sempre.

Posso dire che da lì iniziò il mio approccio con la band, un rapporto lento e ad elastico durato diciotto anni, gran parte di questi passati a preferire altro; nello stesso tempo, però, continuavo a comprare i loro dischi, magari condannandoli al loculo del porta cd in attesa che venissero tempi nuovi.

Non so perché mi ci siano voluti diciotto anni per scegliere l’artista della vita, forse perché la curiosità mi ha spinta ad ascoltare e farmi piacere troppe cose, forse perché, quando lo scegli, l’artista della vita non è necessariamente il migliore che tu abbia mai ascoltato, non il musicista più bravo, ma colui che, in un certo qual modo, ti accompagna nelle fasi cruciali della tua esistenza. Al Ten Club mi sono iscritta poche settimane fa, dopo mesi di riluttanza causata da una personalissima refrattarietà alle tessere e dallo stupido pensiero che diventarne membro avrebbe implicato la perdita del senso critico nei confronti del gruppo, come se qualche strana forza dogmatica mi impedisse di aver voglia di chiamare i carabinieri, farmi portare sul palco dalla volante e urlare in faccia a Ed “Ma cosa cazzo fai?” al primo accenno di “Yeah yeah yeah!” ogni volta che sento la versione live di Corduroy degli ultimi due anni.

Alla fine mi sono iscritta, ciò che non mi piaceva prima non mi piace adesso e i corretti su Corduroy continuo a detestarli profondamente. Ha semplicemente vinto il senso di appartenenza, ha vinto il talento di Ed di prendere cover di svariato genere e farle sue, sempre con sensibilità e rispetto. La stessa sensibilità che non ha – maledetto – nel comparire improvvisamente nelle nostre vite con la canzone perfetta nel momento giusto. Sei innamorata e splendidamente felice? Mo’ ti suono Throw Your Arms Around Me degli Hunters & Collectors (!). Sei in loop depressivo a nastro? Va’ che ti sparo Girl From The North Country. Vuoi farti del male cercando risposte che non sai darti? Guarda, quasi quasi ti canto Good Woman e la attacco pure alla tua cara Better Man a Ohana.

Fanculo Ed, davvero.

https://www.youtube.com/watch?v=X1iKpqsxm9o

Lei mente e dice di amarlo, non riesce a trovare un uomo migliore

Stone Gossard una volta disse di essere sinceramente ammirato dall’attitudine di Vedder a raccontare storie, calarsi nei panni dei più svariati personaggi e, soprattutto, scrivere da un punto di vista femminile.

Donne profondamente diverse tra loro, peraltro: mogli, amanti, spie, figlie, vittime, sbandate, vecchie signore dietro al bancone in una piccola città… storie senza troppa speranza che, nel corso degli anni, sono riuscite a trarre, non si sa come, una forza tale da farle paradossalmente diventare inni positivi. Deve essere una prerogativa di Vedder e del gruppo tutto, considerata anche la storia di Alive e di come l’inquietudine del protagonista – e dell’Eddie adolescente, che con il protagonista stesso condivide più di un tratto – sia stata spazzata via dall’esaltazione collettiva ogni volta che quel riff arcinoto esce dalle corde dello stesso Gossard.

Ed fu sempre profondamente protettivo nei confronti di Better Man, non so se per posa derivante dal suo ruolo dell’epoca o perché realmente rappresentava un nervo scoperto. Di sicuro so che il verso “Can’t find a better man”, estrapolato dall’amaro contesto della canzone, si è tramutato in qualcosa di differente, ribaltando di fatto la rassegnazione del significato globale del brano. Pare sia successo a molte persone, di sicuro è successo a me.

Mi ha accompagnata negli amori sbocciati e in quelli finiti, nell’esaltazione e nel buio, in tutte le volte che mi sono ritrovata a provare discorsi allo specchio, quel riff iniziale così dolente e straziante non se ne andava mai, non se n’è mai andato. Poi però arrivava quel crescendo che, fino alla chiusura del pezzo, ti consegnava questa sensazione di rinascita, in barba a quella donna “che sogna a colori, sogna in rosso” che non riusciva a rompere definitivamente l’oblio di solitudine e rassegnazione in cui era finita.

Indimenticabile – per me – la versione di Seattle 2000, contenuta in Touring Band, in quell’anno cruciale. Il viso sofferente e bellissimo, quella cazzo di voce che non so come faccia a stare al mondo, il post-Roskilde, il post-Beth, la tag meravigliosa in coda al brano.

I gotta go”. Ed se n’era andato da molte cose, la costante no.

Sono passati diciotto anni dal nostro primo incontro. Del gruppo so molto (quasi tutto) di più, a tempo perso cerco ciò che ancora non so e abbozzo setlist immaginarie con roba non più suonata dalle guerre puniche e tre quarti di Lost Dogs.

Vai a finire che stata tutta colpa di una “grande canzone pop (cit.).

 

ALICE MISCEO
F
acebook | Twitter

Nasce nel 1984 in un angolo del profondo sud della Romagna. Articolista surrealista, pallavolista poco, musicista ancora meno, bloccata su Twitter da Rita Pavone (tessera numero 1.257.987). Scrive di volley e relative amenità su lasorellanza.comSogna di moderare una tavola rotonda con Ed Vedder, David Lynch e Nikola Grbić e farla sfociare in un drinking game solo per vedere chi ne esce vincitore.