Trent’anni fa usciva l’album dei Temple of the Dog: il nostro ricordo

Andrea Riscossa ricorda l’uscita dell’omonimo album dei Temple of the Dog, pubblicato esattamente trent’anni fa oggi.

Trenta.

Quest’anno il numero trenta sarà ricorrente. Perché nel 1991 sono accadute molte cose, nei negozi di dischi, nei club, nelle case di milioni di adolescenti sparsi per il globo.

Trenta è un numero enorme per la musica, soprattutto se indica quanti anni sono passati dall’uscita di un disco che è un po’ l’inizio di una storia, almeno per me. Ognuno di noi ha suo racconto musicale, fatto di radici, cambiamenti, amori e odi. Spesso è legato all’anagrafe, perché un movimento musicale è come un’onda, e la magia a volte lega un momento, un’età, all’uscita di un disco.

E allora mi stappo una birra, metto su le cuffie, e inizio un piccolo viaggio a ritroso nel tempo, in onore di un disco che è il mio, personalissimo e ufficiale, primo album preferito del movimento di Seattle. Cheers.

https://www.youtube.com/watch?v=UCaRnc7e204

C’era una volta un frontman istrionico e appariscente. Il primo dietro un microfono, nello stato di Washington, che sembrasse davvero un personaggio capace di rapire ogni sguardo e sedurti con la voce. Si chiamava Andrew Wood. Aveva da poco fondato una nuova band, i Mother Love Bone, chiamando alla sua corte tre ex membri dei Green River: Bruce Fairweather, Stone Gossard e Jeff Ament. Avevano pronto un disco e un contratto con la Polygram, ma Andrew, che da anni lottava contro la tossicodipendenza, entrò in coma da overdose il 16 marzo del 1990. Morirà tre giorni dopo, in ospedale, mentre nella camera riecheggiava A Night at the Opera dei Queen, uno dei dischi preferiti di Wood.

C’era una volta il compagno di stanza di Andrew Wood, Chris Cornell, cantante dei Soundgarden. Aveva già un paio di dischi alle spalle, quando il suo amico perse la vita.

Fu durante la tournée estiva di Louder Than Love che si ritrovò a scrivere un paio di canzoni per l’amico scomparso. Erano pezzi molto lontani da quello che scriveva per i Soundgarden, ma erano due canzoni gloriose: Say Hello 2 Heaven e Reach Down. Ne parlò con qualche amico e poi chiamò Jeff Ament e Stone Gossard, che a sua volta contattò Mike McCready. Si aggiunse il suo batterista Matt Cameron e insieme fondarono i Temple of the Dog, in onore di una canzone di Wood, Man of Golden Words.

Gossard, McCready e Ament stavano parallelamente lavorando al progetto chiamato Mookie Blaylock, dopo che l’amico comune Jack Irons, ex batterista dei Red Hot Chili Peppers, aveva spedito a San Diego una cassetta con alcuni pezzi a Eddie Vedder. Tra le tracce tornate indietro, su cui era stata incisa la voce di Vedder, spiccava la sua versione di Times Of Trouble, che diventerà quella che tutti conosciamo come Footsteps, inserita prima come lato B del singolo di Jeremy, poi nella raccolta Lost Dogs.

Accadde così che le due band occuparono nello stesso periodo i London Bridge Studios di Seattle e il timido Eddie si fece avanti come seconda voce nel pezzo Hunger Strike. Cornell lo vide come l’ultimo tassello mancante al suo progetto e il disco, distribuito dalla A&M Records, uscì il 16 aprile del 1991. Trent’anni fa.

C’era una volta il 1991.

Ad aprile di quell’anno Cornell e soci davano alla luce il loro piccolo capolavoro, e solo un mese dopo, il 28 maggio, usciva Gish, primo lavoro degli Smashing Pumpkins, e primo grande capitolo per Butch Vig in produzione. Ma il meglio accadde sul finir dell’estate: ad agosto usciva Ten, disco d’esordio dei Pearl Jam (gli stessi Mookie Blaylock che condividevano gli studi con Cornell), mentre lo stesso giorno di settembre, il 24 per l’esattezza, venivano pubblicati l’iconico Nevermind dei Nirvana e Badmotorfinger dei Soundgarden, terza opera e assoluto capolavoro. In realtà quel giorno uscì anche Blood Sugar Sex Magik dei Red Hot Chili Peppers (con Rick Rubin alla produzione), regalando a noi giovini una giornata da ricordare.

Se volessimo allargare l’orizzonte musicale si potrebbero segnare anche altre date dello stesso anno: a marzo era uscita quella perla degli Slint dal titolo Spiderland, nonché Out of Time, disco che regalerà ai R.E.M. gloria e fama. Aggiungiamo Blue Lines, esordio dei Massive Attack, Trompe le Monde dei Pixies, Green Mind dei Dinosaur Jr., Steady Diet of Nothing dei Fugazi. E ancora potremmo aggiungerne, ma credo di aver reso l’idea di cosa stesse accadendo.

I palinsesti di MTV vennero stravolti da musica nuova, da una nuova generazione di artisti che stavano segnando una cesura netta con la musica degli anni ottanta. Avevano le radici nell’indie e nel college rock, altre nel punk e nel metal anni settanta, ma quello che fecero fu stravolgere l’immagine, il messaggio e in parte il concetto stesso di band. Ma questa è un’altra storia.

Quello che importa è che il disco dei Temple of the Dog è parte fondante di questa rivoluzione partita da lassù, in alto a sinistra.

C’era una volta un tredicenne, viveva a 8611 chilometri da Seattle. Ma era solo un dettaglio. Un refuso di un destino geografico.

Nel 1991 era distratto, le prime ombre di orribili baffetti spuntavano sotto il suo naso ed il suo indefesso desiderio di riprodurre Mad Max con il Lego vacillava definitivamente il giorno 17 aprile, dopo aver ricevuto il primo bacio davanti al portone di casa, da una certa Elisabetta, nome regale e importante, pensava, mentre compiva in modo del tutto inconsapevole il suo primo passo verso un’altra età.
Perché qualcosa stava cambiando. Gli ormoni dichiararono ufficialmente la rivoluzione, rimescolando priorità, ordine e desiderata.

Nel settembre di quello strano anno, poco prima che Kurt Cobain facesse entrare un’intera generazione dentro una palestra nel video di Smells Like Teen Spirit, iniziò a frequentare il liceo classico. Tre mesi prima Cornell e Patton avevano spazzato via i Guns N’ Roses in un concerto nella sua città, segnando in qualche modo l’inizio di un nuovo capitolo anche su questa sponda dell’oceano. E poi Frusciante, appeso alla chitarra nel video di Under The Bridge, e tutta quella musica che lentamente veniva a galla, tra MTV e autogestioni e cassette registrate mille volte.

Iniziò uno studio a ritroso. Si dedicò a Bleach dei Nirvana con lo stesso approccio usato per la prima declinazione latina: rosa / rosae / rosae / no recess / no recess / no recess.

In camera aveva un vecchio grundig bianco. Il suo primo atto di ribellione, segreta e di poco disturbo, fu riprogrammare la sequenza delle emittenti: via raiuno dal primo posto, vinto da MTV. Al secondo Videomusic, ottima alternativa. Al terzo lasciò raitre, ai tempi era davvero raitre. Le televisioni di allora avevano fiutato l’affare e diedero in pasto alla generazione X quello che più voleva, grunge a pioggia e nuovi gruppi e generi che fossero espressione di una nuova identità, quale fosse però, non era dato ancora saperlo.

Un gruppo su tutti però rapì il cuore del nostro giovane: erano i Pearl Jam, chimicamente a lui più affini, o, più semplicemente, fu un colpo di fulmine. In cui i suoi ormoni rimanevano fuori, quelli erano impegnati altrove.

E nei suoi studi, fatti di riviste e infondate voci di corridoio, venne a sapere dei Temple of the Dog, prometeico supergruppo che portò il sacro fuoco del grunge agli uomini primitivi di Seattle. Scoprì che l’album era dedicato a un amico morto per droga, argomento che nello stesso anno, in Italia, veniva affrontato da Marco Masini. Mentre la questione femminile era affidata al duo Sabrina Salerno e Jo Squillo. Capirete perché si decise per la via di Seattle.

A dire il vero, nei primi mesi del 1992, anche la A&M Records si rese conto di aver pubblicato, un anno prima, un disco dei Pearl Jam con Chris Cornell. Dato il successo di tutti i protagonisti di quell’avventura, ripubblicarono il disco e corsero a girare un videoclip di Hunger Strike che in poco, pochissimo tempo, finì in heavy rotation su MTV.

E infine c’era una volta un faro.

Un faro e pochi accordi che diventarono quasi subito una sorta di interruttore.
In quegli anni fatti di videoclip la musica era associata a immagini precise. Un po’ come accade con i profumi o certi odori. Si caricano di memoria. Di altro.

Comprato l’album, rigorosamente in cassetta, avvenne un’altra magia. L’intro di Say Hello 2 Heaven diventò a sua volta un interruttore, o meglio, una porta. Una porta per un luogo che non era fisico, ma aveva dei confini ben precisi, dei profumi, delle immagini. Fu così che la musica, soprattutto quella di quegli anni, diventò tangibile, in qualche modo o a causa di una qualche magia. Diventò però anche medicina, compagna, colonna sonora, tavola della legge, consigliera. Un disco aveva un gusto, come un buon vino. E aveva quindi anche buoni abbinamenti, che piano piano iniziò a saper maneggiare.

Quel disco ancora oggi, per lui, è luogo della mente, luogo della memoria. E il bello è che il disco non invecchia mai. Come un ritratto di Dorian Gray al contrario, diventa grigio lui e il disco rimane uguale, con una copertina orribile, ma li unisce una quantità infinita di ricordi comuni, di viaggi, di ascolti ripetuti, di memorie condivise. Una discoteca di memorie. Un (ex) ragazzo fortunato.

E allora brindo a lui, ai fari, al 1991, a Chris e Andrew, a Seattle.
Buon trentesimo anniversario, Temple of the Dog.

https://www.youtube.com/watch?v=QhOLWb-ktLw

Andrea Riscossa

Nato nel 1977, torinese.

Nel 1991 escono Gish, Nevermind e Ten. E nulla sarà più come prima. Una laurea in lettere lo convince a salire su un trattore, mentre una fallimentare carriera nell’illustrazione lo porta alla vita tra cavalli e bambini. Un paio di concerti di Springsteen risvegliano il sacro fuoco della musica, così finisce col fare il finto contadino letterato. Collabora con Vez Magazine.

Canzone: Rearviewmirror
Quote: With you I could never feel alone