Pearl Jam: Italia 2014

Abbiamo chiesto ai fan italiani di raccontare con le loro parole e i loro occhi i concerti di Milano e Trieste. In questo special sono raccolti i contributi che abbiamo selezionato tra le decine di ottimi lavori arrivati in redazione. Grazie a tutti e buona lettura!

MILANO, STADIO SAN SIRO, 20 GIUGNO 2014

Soundcheck (19/06): Gonna See My Friend, In My Tree, Pilate, Who You Are, Rain (Beatles), Sleight Of Hand, Nothing As It Seems, Future Days, Deep, Sad, Leatherman, Public Image(PIL)

Eddie Vedder pre-set: Porch 

Setlist: Release, Nothingman, Sirens, Black, Go, Do The Evolution, Corduroy, Lightning Bolt, Mind Your Manners, Pilate, Untitled/MFC, Given To Fly, Who You Are, Sad, Even Flow, Swallowed Whole, Setting Forth (Eddie Vedder), Not For You, Why Go, Rearviewmirror

Encore: Yellow Moon, Small Town, Thin Air, Just Breathe, Daughter/W.M.A./Let It Go (Lopez)/It’s Ok (Dead Moon), Jeremy, Better Man/Save It For Later (The English Beat), Spin The Black Circle, Lukin, Porch 

Encore 2: Alive, Rockin’ In The Free World (Neil Young, w/ Ray Cameron), Yellow Ledbetter

Canzoni presenti nella setlist originale ma non suonate durante il concerto:
Chloe Dancer/Crown Of Thorns (Mother Love Bone)
Comatose
Got Some

FANVIEW #1: PEARL JAM LIVE A MILANO
di Ilaria Tarricone
Foto di Sisto Scandozza (Facebook)

“I Pearl Jam fanno il tour in Italia!” “Ma davvero? E quando?” “A Giugno 2014! Sai che qualunque sia la cifra del biglietto, io ci sarò, vero?”

Era l’anno scorso. Dicembre 2013, per la precisione. In quanti di voi hanno aspettato che venissero annunciate le date, con il mouse puntato su refresh? E in quanti di voi il 20 dicembre hanno pregato e incrociato le dita affinché le date di Milano e Trieste non andassero sold out nel giro di cinque minuti?

Una corsa contro il tempo, in un click la risposta ad anni e anni di attesa e promesse. Perché i Pearl Jam mancavano in Italia dal 2010 e a Milano dal 2006. Perché ogni anno la speranza di un live italiano si affievoliva. Ma il 20 giugno 2014, 60mila e più amanti del rock classico e puro hanno realizzato il proprio sogno: i re del grunge live in Italia.

Nei giorni precedenti le previsioni non erano delle migliori: nel live di Amsterdam Eddie era visibilmente affaticato, per via di un ginocchio dolorante. La setlist era, però, da urlo. Tralasciando gli album in studio – tra cui l’ultimo Lightning Bolt dell’ottobre 2013 – i Pearl Jam sono famosi per i loro live. Nei live Eddie è cresciuto: da timido e impacciato a ribelle e incazzato. Nei live hanno pianto e hanno fatto piangere milioni di fan, dai live assorbono tutta l’energia necessaria per continuare a far musica dal 1990.

Nonostante la maestosità di questa band, sino ad oggi non avevano mai suonato in uno stadio italiano come headliner. Sbarcano per la prima volta a San Siro dopo aver calcato i palchi migliori di tutto il mondo. E San Siro ringrazia coprendo spalti e parterre con un tappeto di adrenalina pura. Chi è stato ai loro concerti può confermare che l’atmosfera è familiare. Eddie e soci hanno la capacità di farti sentire a casa, tra amici e parenti. I Pearl Jam puntano sul coinvolgimento emotivo piuttosto che scenografico, perché il loro obiettivo finale non è fare un bello show per i fotografi, ma rendere il pubblico protagonista, facendolo cantare e ballare senza tregua.

E senza nessuna tregua i Pearl Jam hanno infuocato lo stadio per ben tre ore di fila, con due pause di nemmeno cinque minuti ciascuna, prendendo fiato solo per bere dalla solita bottiglia di vino rosso e aprire le braccia in un abbraccio virtuale. Vedder ha con l’Italia un legame profondo non solo per i fan: qui ha conosciuto la moglie – dopo il concerto al Forum del 2000 – e chiede al pubblico di festeggiarla insieme. In Italia ha scritto canzoni come MFC – ovviamente suonata sul palco ieri – dedicata al traffico di Roma, città che amava visitare con la prima moglie. E ha per gli italiani un grande amore, da sempre: ha voluto omaggiare la nazionale italiana impegnata quella sera contro la Costa Rica ai Mondiali, uscendo sul palco con la maglia azzurra numero 10 e, con una chitarra in mano e gli occhiali da sole, intonando una velocissima Porch in acustico. La partita dell’Italia non è andata a buon fine, ma la sconfitta non ha distratto i fan dalle successive tre ore di totale furore.

Sugli spalti e nel parterre, le generazioni si mescolano, dai figli ai nipoti e anche nonni, che, nonostante l’acustica potente, hanno saputo tenere duro con qualche minimo acciacco. Sul palco niente, se non uno sfondo con telo nero, il logo dell’ultimo album, alcune lampade e un uccello fatto di ferro, di cui poche foto testimoniano l’esistenza.

Nessun effetto speciale, nessuna passerella tra la gente, la forza della band è nella voce e nelle mani sugli strumenti.

Sono le 20.43 e dal secondo anello si intravedono mani alzate, poi il boato e infine eccoli: i Pearl Jam fanno il loro ingresso quando ancora è luce piena e molti stanno cenando con birra e patatine. Iniziano piano, con calma, con Release.

Intensità e dolcezza, per salutarci come si deve. Ci preparano a una serata maestosa, con una setlist che segue le onde del mare: ballate-ritmiche-ballate-ritmiche-ballate. Un’altalena di brividi e urla a squarciagola, di applausi da ledere i palmi delle mani. Eddie, come sempre, ha provato a parlare in italiano: “Ci siete tiutti, siete pronthi?” e poi “Ho fatto tanti brutti sogni recentemente, così tanti che ora ho paura di chiudere gli occhi. Penso di aver letto troppi giornali. Ma ora che vedo tutti voi qui a Milano, è un grande sogno“. Poi ha desistito e ha impastato frasi in inglese, di cui si è capito “Fintantoché riusciremo ad andare d’accordo almeno per una serata, noi vinceremo contro tutto“, una frase che ha spalancato le porte a Rockin’ in the Free World, una delle ultime canzoni suonate, a cui ha partecipato alla chitarra il figlio teenager di Matt Cameron, Ray.

I primi brani sono propiziatori: NothingmanSirens Black sono perfette come intro. McCready “fa l’amore” con la chitarra come al solito, Cameron sembra un po’ timido, ma molto concentrato, Ament il solito grillo sul palco, Gossard serio e rilassato e Boom Gaspar che fa capolino da dietro l’organo Hammond. Vedder sorride. Le ore successive si stenta a ricordare cosa sia successo. Tra le ondate di brani calmi, ecco Pilate, con Jeff maestoso, la splendida Given to Fly – di cui Eddie non si ricordava le parole e si è dato dello “stronzo” da solo in italiano – e le classiche e intramontabili Better ManJeremyThin Air e Setting Forth, dalla colonna sonora di “Into The Wild”.

Pronti poi per ballare – ma non pogare perché Eddie non vuole – con GoDo the Evolution, CorduroyLightning BoltMind Your Manners, l’inaspettata Sad, la pericolosa Porch, le famose AliveEven FlowRearviewmirror e Daughter con citazioni di W.M.A., Let it GoIt’s Ok.

Su Just Breathe, Vedder ha mostrato il suo già conosciuto lato romantico: “Siamo venuti a Milano nel 2000, ma io ero sotto a un treno  [si era appena lasciato con la prima moglie Beth Liebling, n.d.r.] ma poi ho incontrato una ragazza che è diventata mia moglie e la madre delle mie figlie. Stasera sono qui con me e vorrei brindare ai nostri quattordici anni insieme. Cheers!“. Inquadrata la moglie, un bacio al volo, un sorso di vino e si continua a cantare.

Trentasei brani suonati in totale, interpretati come il rock comanda, intervallati da un Happy Birthday alla moglie di Matt Cameron e da lanci di tamburelli per i primi della fila. “Potete venire a Seattle con noi?“, dice Eddie Vedder commosso a metà serata, poi ci ripensa: “Anzi, no, ci fermiamo qua noi, abbiamo molti amici“. Amici: è questa la parola giusta per descrivere i Pearl Jam. Un’amicizia che dona e riceve amore infinito per la musica, quella vera e sentita, quella che ti fa incazzare e piangere nello stesso tempo. Quattro anni fa Eddie chiudeva così l’Heineken Jammin Festival a Venezia: “L’Italia era come la luna quando abbiamo iniziato 20 anni fa. E ora abbiamo il nostro posto sulla luna, quindi grazie a tutti voi per questo“. Adesso, oltre la luna, l’Italia è diventata la loro seconda casa.

 

TRIESTE, STADIO NEREO ROCCO, 22 GIUGNO 2014

Setlist: Small Town, Low Light, Black, Sirens, Why Go, Animal, Corduroy, Getaway, Got Some, Given To Fly, Leatherman, Lightning Bolt, Mind Your Manners, Deep, Come Back, Even Flow, Down, Unthought Known, Infallible, Whipping, Do The Evolution, Rearviewmirror

Encore: Let Me Sleep, Chloe Dancer/Crown Of Thorns (Mother Love Bone), Jeremy, State Of Love And Trust, Wasted Reprise, Life Wasted, Porch

Encore 2: Better Man/Save It For Later (The English Beat), Once, Alive, Rockin’ In The Free World (Neil Young), Yellow Ledbetter

Canzoni presenti nella setlist originale ma non suonate durante il concerto:
Crazy Mary (Victoria Williams)
Baba O’Riley (The Who)
I Got Shit

FANVIEW #2: PEARL JAM LIVE A TRIESTE
di Aurora Bincoletto
Foto di Laura Ferretti (Flickr.com)

Un concerto iniziato in anticipo, questo proprio non me l’aspettavo. Immediatamente però si fa strada in me il pensiero che se dei musicisti come i Pearl Jam – e come loro ce ne sono veramente pochi – scelgono di salire sul palco prima del previsto, devono veramente avere voglia di regalare al loro pubblico un concerto epocale, magnifico, colmo, intenso ed avvolgente. Diversamente, d’altronde, non sarebbe potuto essere. Arrivo giusto in tempo dentro allo Stadio Nereo Rocco di Trieste, con le mie amiche, conosciute in treno la sera precedente, ma già unite in una sorta di “fratellanza musicale” che ci ha reso subito sorelle. Perché la musica accomuna gli estranei più di un buon piatto di pasta mangiato assieme…

Volti entusiasti, ancora prima d’entrare, tutt’intorno a noi. Noi che eravamo la maggioranza, noi generazione anni ’80 cresciuta a “Pane e Grunge Made in Seattle” quelli che si chiedevano dalla sera prima se “i nostri” avrebbero suonato AliveJeremyRearviewmirror o Yellow Ledbetter. Il cielo va lentamente scurendo, ma c’è ancora luce in lontananza. Guardo l’orologio ed il suo incipiente ticchettio, poi ad un tratto: il boato. Alle 20:50 qualcuno si accorge che “i nostri” stanno già salendo sul palco. Come non riconoscere Eddie Vedder nella sua camicia scozzese che tanto lo caratterizza!? Si inizia…

Leggeri e morbidi con Elderly Woman Behind the Counter in a Small TownLow Light Black, quasi a voler accompagnare lentamente il giorno che se ne va, con un velo di nostalgia. Presto si fa buio e Sirensriecheggia, nella sua novità, assieme a 30.000 voci che scandiscono ogni parola come se l’ascoltassero da sempre. Poi, quasi per gioco, come se finora si fosse “scherzato” con quelle meravigliose ballate, arriva il momento di saltare, e non c’è avviso di divieto al “pogo” prima dell’entrata che tenga. La cinquina Why GoAnimalCorduroyGetawayGot Someesalta uno stadio colmo di gente che non aspettava altro, come fosse un’unica anima danzante. Passiamo a Given to Fly, il capolavoro firmato McCready-Vedder, uno dei pezzi principali dell’album “Yield” del lontano 1998, di cui ascolteremo subito dopo Leatherman, canzone più corta, che sembra quasi fare da intro a Lightning Bolt che, non a caso, con tutto il suo vigore, dà il titolo al nuovo album. A seguire Mind Your Manners, accattivante e audace, come il suo significato.

Dall’oggi al domani, con una padronanza che solo i creatori sanno avere, facciamo un’altro salto nel passato e ascoltiamo Deep dal primo album, “Ten”. Vedder si esercita con noi, con il suo italiano, cosa che apprezziamo molto già dal primo quarto d’ora del concerto.

Arrivati a questo punto, pendendo tutti ulteriormente dalle sue labbra, ci apre il suo cuore chiedendoci di salutare assieme a lui il suo amico scomparso “John Vedder” e noi non facciamo mancare tutta la nostra solenne coesione sulle note di Come Back. Lo Stadio si trasforma in un’onda di luci e la intoniamo tutti la melodia scritta originariamente per Johnny Ramone. Arriva il momento di Even Flow e non ce n’è per nessuno, non si scappa da un “flusso costante” con McCready che si esibisce in un’assolo con la chitarra sulle spalle. Quasi a ringraziarci dell’intensità della nostra vicinanza di pochi istanti prima, Vedder ci regala una voce perfetta, come se non fossero passati 23 anni dalla prima incisione, mentre i suoi compagni suonano con un vigore da ragazzini le note che hanno cresciuto sul serio i “ragazzini” che ora hanno di fronte.

 

Seguono DownUnthought KnownInfallible, la sempre sconcertante Do the Evolution e la mia attesissima Rearviewmirror, come non l’avevo mai ascoltata in nessuna delle miriadi di registrazioni live che si possono trovare sul web. Da brividi. Ma ci sono ancora altri capolavori da cantare a squarciagola per noi 30.000, ormai in delirio. Eddie intona Let Me Sleep ma è con Chloe Dancer/Crown of Thorns – eseguita su richiesta di un fan sotto il palco a cui Vedder regala i suoi migliori sorrisi – che capisci quanto ne sia valsa la pena di affrontare viaggio, spese e aspettative.

Jeremy non poteva mancare e la si canta con tutta la coscienza dell’amarezza del suo significato, State of Love and Trust ci rinvigorisce, perché a qualcosa bisogna pur credere. Wasted Reprisesarà il preludio di Life Wasted, che come il nero “sta bene con tutto” e arriva anche l’immancabile quanto necessaria Porch. Potrebbero continuare all’infinito e potrebbe ancora non bastare…

L’ora di Better Man è giunta, come pure quella di Once e subito dopo immediati arrivano, chiarissimi, gli accordi di Alive, seguiti dalle grida di chi non aspettava di meglio, uno stadio intero insomma. Gli spettatori del prato srotolano, a sorpresa, una bandiera dell’Italia con su scritto “We Keep on Rockin’ in the Free World with You” e tempo trenta secondi la batteria di Cameron scandisce la velocità con cui sarà eseguita la cover di Neil Young.

Come concludere un concerto così? Con la canzone che non appartiene a nessun album, Yellow Ledbetter, come a dare una morale a tutto il concerto: non importa l’anno d’incisione e nemmeno il disco d’appartenenza, ma come te la sai vivere la musica.

 

Pearl Jam by Numbers: The 2014 Italian Project

di Luca Villa (originariamente pubblicato su BarracudaStyle.com)
Foto di HenryRuggeri.com / VirginRadio.it

Uno, come il pubblico che ha assistito ai due concerti della band di Seattle. Un pubblico unico quello che si vede ai concerti dei Pearl Jam, che va dai quindici ai sessant’anni. Un pubblico simile, per certi versi, al popolo di Springsteen.

Due, come il numero degli stadi in cui i Pearl Jam hanno suonato questa volta in Italia. La loro prima volta – da headliner – in strutture così enormi. In realtà c’è un precedente, ventun anni fa, come opening act dello Zooropa Tour degli U2, ma quella è tutta un’altra storia… una vita fa.

Tre, come le ore di durata complessiva di ognuno dei due show. Tre ore di puro rock, aggressivo (Spin The Black Circle, Corduroy, Animal, Deep), romantico (Sirens, Just Breathe, Thin Air, Come Back), generazionale (Alive, Jeremy, Black). I loro concerti più lunghi in Italia, finora.

Quattro, come l’ora citata nel primo verso di quella Better Man (“Waiting, watching the clock / It’s four o’clock, it’s got to stop“) che a Milano, come a Trieste, ha fatto cantare tutto il pubblico. Rendendo ben chiaro una volta per tutte qual è l’unica rock band che conta davvero in questi anni.

Cinque, come il numero di canzoni proposte – a concerto – tratte dall’ultimo lavoro in studio della band. Da quella Sirens presentata a sorpresa a inizio set e in grado di coinvolgere tutti, all’aggressiva Mind Your Manners. Dall’epica Lightning Bolt, la title track del disco, alla potente Infallible, dalla tosta Getaway alla delicata Yellow Moon. Alla faccia di chi li vorrebbe confinati solo al passato.

Sei, come le volte che i Pearl Jam hanno suonato a Milano nella loro carriera. Al Sorpasso e al City Square nel 1992, al Forum nel 1996, nel 2000 e nel 2006. Questa volta è toccato allo Stadio San Siro – la Scala del calcio, già teatro di tanti storici concerti rock – ospitare il primo dei due concerti italiani della band del 2014.

Sette, come il numero delle lettere che compongono Release, la prima canzone suonata a Milano, che ha liberato quell’enorme onda di emozioni che ci ha accompagnato in queste due indimenticabili serate.

Otto, come l’ottava traccia di VsRearviewmirror, una delle migliori rock song del repertorio dei nostri, che grazie ad un outro esteso ha guadagnato una seconda giovinezza. Non male per un pezzo che ha ormai ventun anni.

Nove, come la durata complessiva dell’epica cover dei Mother Love Bone, Chloe Dancer/Crown Of Thorns. Scartata dalla setlist originale di Milano, è stata ripescata a Trieste dopo che la band aveva notato un ragazzo in prima fila con una t-shirt della band capitanata dal compianto Andy Wood. Forse il punto più alto di queste due serate.

Dieci, come Ten, il disco di debutto della band, suonato quasi per intero nel corso delle due date italiane. Il disco forse più amato dalla maggior parte del pubblico che è accorso a vedere i suoi beniamini in questi concerti che sarà difficile dimenticare.

© www.pearljamonline.it 2014 – Foto di copertina di HenryRuggeri.com / VirginRadio.it