Eddie Vedder compie 55 anni: il nostro omaggio al cantante dei Pearl Jam

DI LAURA FACCENDA | FOTO DI ALESSANDRO DE VITO

Ho dato un passaggio ad un autostoppista questa mattina. Una valigia costellata di adesivi, testimonianze di miglia e miglia in giro per il mondo. Anfibi consumati, jeans scuri, una camicia sbottonata sopra una t-shirt. Lungo la strada, ho incrociato il suo sguardo timido, fiducioso. Lo sguardo di chi guarda sempre oltre la strada. Non sono riuscita a non fermarmi. Freno, lo supero di poco. Do un’occhiata allo specchietto retrovisore, facendo cenno di salire. Lo sportello alla mia destra si apre, siamo fianco a fianco ora.

<< Ciao, posso aiutarti? >> – chiedo.
<< Ciao, sono Eddie. Piacere! >>.
<< Ciao Eddie. Da dove vieni…e dove vai? >>.
<< A dire la verità il mio nome di battesimo è Edward Louis Severson III. Sono nato a Evanston, il 23 dicembre 1964. Mi sono trasferito a Seattle da molto tempo però >>.
<< Ah… Buon compleanno allora!! >>.
<< Grazie. Sono 55, oggi. Quasi non ci credo. Ho vissuto almeno due o tre vite. Cantando, suonando…sono il frontman di una band… ci chiamiamo Pearl Jam. Essere musicista è anche questo >>.
<< Beh, immagino… Dove sei diretto ora? >>.
<< Verso un tratto di percorso condiviso, senza definizioni, senza titolo. Credo ci sia un destino a indirizzare le nostre esistenze. Siamo noi, in questo caso tu, a guidare quell’auto speciale. Andate, ritorni, passaggi…e numeri >>.
<< Numeri…>>.
<< Sì… in questa data, il numero 5 è significativo. Vorrei raccontarti un po’ di me attraverso cinque canzoni, cinque figure che sono state dei fari, dei punti di riferimento per me, cinque film come pellicole che scorrono e cinque episodi indimenticabili… >>.
<< E non eri tu quello del “five against one”? >>
<< Sì ero io, sono io. Eravamo noi, siamo ancora noi >>.

CINQUE CANZONI

  • Footsteps: sugli accordi di una chitarra dall’eco lontano e di un’armonica che segue la linea di impronte lacerate, si intrecciano due destini. Jeff Ament e Stone Gossard, bassista e chitarrista dei Mother Love Bone, rimasti orfani del leader e amico Andy Wood, scomparso tragicamente a causa di un’overdose, ascoltano una voce registrata sul nastro di un’audiocassetta. << Vale la pena ancora continuare? >> – è la domanda di un attimo prima. << >> – è la risposta di un attimo dopo aver ascoltato il timbro profondo e malinconico di un surfista di San Diego. È Eddie Vedder ad aver inviato la demo di Footsteps, terzo capitolo della saga di Mamasan (insieme ad Alive e Once). Nello stesso momento, Chris Cornell sta incidendo sulla stessa struttura melodica Times Of Trouble, perla dei Temple Of The Dog, traccia numero sei dell’omonimo album dedicato proprio ad Andy Wood. Un doppio tentativo di esorcizzare perdite e fantasmi passati e presenti, nella disperata ma desiderosa ricerca di una via di uscita: << Eravamo come sconosciuti che venivano dallo stesso posto >>.
  • Alive: Il brano che, negli anni, si è trasformato in un inno universale, acclamato dai fan in tutti gli stadi e le arene, è il racconto di una vicenda personale e traumatica: la scoperta della vera identità del proprio padre soltanto a 13 anni, dopo la morte del genitore. Portarne addosso i segni e l’eredità mai del tutto legittimata, tanti impressionate è la somiglianza. È questa la ferita sanguinante, il solco rabbioso di Vedder adolescente, ragazzo, uomo: << Dover imparare a convivere con queste verità, sapere che mio padre era morto prima di conoscerlo… era una maledizione. “Sono ancora vivo”. Qualche anno più tardi, quando lo ricantavo di fronte a folle sempre più grandi, ho visto la gente reagire come non mi sarei mai aspettato. Saltavano su e giù, usavano il proprio corpo per esprimersi, e poi cantavano tutti in coro: “Sono ancora vivo”. Fu davvero incredibile, per tutti loro era come una celebrazione. E qui sta il punto: cambiando il significato di quelle parole avevano spezzato la mia maledizione >>.
  • Release: All’interno del dvd che celebra i vent’anni di carriera del gruppo di Seattle, Twenty, si assiste a una scena in bianco e nero. Una radura, un fuoco accesso, il tronco di un albero su cui è appoggiato il cantante. Come colonna sonora, un arpeggio iniziale. Sembra quasi il suono distratto di chi sta accordando uno strumento. In quella sala prove, dove tutto è iniziato, è stato scambiato proprio per una semplice successione di note. Una formula magica, però. Un mantra. La preghiera a cui viene affidata la liberazione dalla volontà di rivincita di Alive, dalla rabbia di Once, dalla solitudine di Deep, dalla sofferente conclusione di un amore di Black. << Una sera, mentre sedevamo a gambe incrociate a casa di un amico ascoltando cassette di Neil Young, Eddie mi ha raccontato la storia di quando ha scoperto che il suo padre biologico era un amico di famiglia che era morto >> – ricorda Crowe – << È stato un breve momento di riflessione malinconica da parte di Eddie, quasi la confessione dell’origine profonda della rabbia che si trova in certe sue canzoni >>. Con la figura paterna, evocata nella seconda strofa con l’informale “dad”, viene ricercato un contatto, un dialogo, una risoluzione dal dolore (I’ll hold the pain / Release me). Collocato in chiusura della tracklist di Ten, Release è il primo brano del primo concerto, il 22 dicembre 1990, in apertura agli Alice in Chains all’Off Ramp Cafè, lo stesso dove verranno girate alcuni frame del film, firmato proprio da Cameron Crowe, Singles – L’amore è un gioco. Il regista è presente quella sera assieme a Susan Silver, manager dei Soundgarden e allora compagna di Chris Cornell, la quale ripercorre il clima di attesa prima che la nuova formazione di Jeff e Stone esordisse in scena: << Tutti erano nervosi. Volevano vedere la fenice alzarsi. Era quella la prima volta che molti fan avrebbero visto Eddie e si chiedevano chi fosse quel ragazzo, se fosse abbastanza in gamba per prendere il posto di Andy Wood >>. Continua Crowe: << La prima canzone che hanno fatto è stata Release. Ho guardato mia moglie Nancy e ho detto: “Quello è il ragazzo timido? Oh mio Dio”. Presto lo vedemmo dondolarsi dalle impalcature. In qualche modo fu una specie di finale per Eddie-il ragazzo dalla timidezza atroce >>.

  • Blood:It’s my blood” – grida il cantante nel ritornello. È il suo sangue quello che i giornalisti versano su articoli e copertine di riviste non più solo musicali ma di costume. Alle soglie del 1993, l’ormai popolare “Seattle Sound” è un fenomeno indagato dai tabloid più patinati, persino dal Time, con la cui redazione Vedder verrà ai ferri corti per un’apparizione mai concordata. Come non concordata, non voluta e distante dalla natura stessa di una musica nata come urgenza espressiva, è l’immagine pubblicamente liquidata che si diffonde dei protagonisti del movimento, di Eddie in primis. “Paint Ed big turn Ed into one of his enemies”. Il frontman non solo assiste a un’automutazione indotta in uno di quei ragazzi immagine che ha sempre disprezzato – << L’ho detto anche al tipo di Rolling Stone, ogni artista che finisce sul loro giornale improvvisamente non mi piace più >> – ma farà di tutto per sottrarsi alle telecamere e alla sovraesposizione dei media, come se quegli aggeggi, puntati su di lui, potessero in qualche maniera risucchiargli l’ispirazione, i versi, il volto, il sangue, l’anima. Il senso di responsabilità, la credibilità.
  • I’m Open: Un uomo giace, in ricovero, su un letto. Non sente quasi più nulla, i movimenti limitati. Si chiede se in quella condizione può considerarsi ancora vivo. Fisicamente sì, dato che è un’intossicazione alimentare a costringere Eddie Vedder ad abbandonare il palco del Golden Gate Parks di San Francisco nel giugno 1995 (sarà sostituito niente meno che da Neil Young). Psicologicamente, la situazione è più intricata. In quel periodo, il musicista decide di spostarsi su un furgone, raggiungendo in autonomia il resto della band direttamente sul luogo dei concerti. Come se non bastasse, durante il tragitto, veste i panni dello speaker dell’emittente pirata che dà spazio agli artisti emergenti e battezzata Selfpollution. Una strada alla conquista della solitudine che lo condurrà, però, ad un bivio. Si troverà di fronte prima i suoi compagni, in pensiero per la minaccia separatista: << Senti amico, tu viaggi nel tuo van, fai i tuoi show in radio, ma sembri esausto. Ti vergogni di noi? Vuoi ancora far parte della band? >>. Poi, la porta di una stanza di ospedale da cui non entra nessuno…anzi, una porta sembra non averla. “A man lies in his bed, in a room with no door”. Avrebbe immaginato, ora, di sperare proprio in una presenza? No. Tuttavia, nel momento di massima debolezza, Eddie si dichiara aperto all’aiuto degli altri. “I’m open” rappresenta una preghiera. La volontà di ripensarsi, di sognare una nuova versione di se stesso, di accogliere, di recepire: << È come un mantra. Non so se riguardi la religione, non so se riguardi una storia d’amore. Riguarda l’essere aperto a qualsiasi coda ci sia là fuori. Come dire: “Sono qui, sto ascoltando” >>.

CINQUE PERSONAGGI

  • Jack Irons: Risale all’estate del 1990 l’incontro fra Eddie Vedder e Jack Irons, durante un’escursione tra musicisti di Los Angeles allo Yosemite National Park a cui partecipano anche Flea, Cliff Martinez e il chitarrista Dix Denney. In questa occasione, il batterista conosce “Crazy Eddie”: << È un nomignolo che nacque da quel viaggio. Possedeva l’energia che avrebbe messo nei primi anni dei Pearl Jam. Si divertiva. Era uno scavezzacollo >>. Trascorso un mese, sempre a Los Angeles, Jeff e Stone, provando a rimettere insieme i pezzi dei Mother Love Bone, incontrano Irons e, spinti dalla stima e dall’ammirazione, gli affidano la cassetta che contiene cinque canzoni appena incise: << Perché non la ascolti e, se conosci qualche cantante, la passi in giro? >>. Ed: << Jack mi diede la cassetta, gli strumentali insomma, e la portai a lavoro – era il turno di mezzanotte. La ascoltai un po’ di volte e la mattina dopo entrai in acqua. Dovevo fare surf. L’avevo nella testa. Quello stesso giorno scrissi tre brani e li spedii alle quattro, prima di andare a lavoro perché avevo il turno anticipato. Scarabocchiai l’artworìk e inclusi il numero di telefono, nel caso avessero voluto chiamarmi >>.
  • Chris Cornell: Durante la registrazione di Temple Of The Dog, su Hunger Strike in particolare, vacillano per un attimo vacillano le certezze del cantante dei Soundgarden sulla struttura: << Ci sono una parte bassa e una più alta. Intendevo cantarle entrambe. È la magia delle sovraincisioni, posso farle tutte e due e verrà benissimo. Comincio: “Going hungry, going hungry…”. Non viene bene. La parte alta è difficile da cantare ma riesco a farla. All’improvviso sento una presenza alle mie spalle. C’era un solo microfono e quando è arrivato di nuovo il ritornello, lui ha mosso la spalla in avanti per farmi capire che aveva un piano. Non lo consocevo, c’eravamo solo detti ciao. Non era invadente o egocentrico. Forse aveva pietà di me e voleva aiutarmi a risolvere un passaggio difficile. Si è messo a cantare: “Going hungry, going hungry…”. Io ho fatto la parte alta, lui l’ha ripetuta. Mi si è accesa una lampadina in testa: “Cazzo ha un registro basso grandioso…E se cantassi la prima strofa e poi entrasse la band con lui che canta la stessa strofa?” >>. È nato così il sodalizio tra i due artisti, in punta di piedi. Vedder la ricorderà sempre come una delle canzoni preferite per il significato fondamentale all’interno del suo percorso: per la prima volta ascoltava la sua voce incisa in un disco. Per la prima volta era davvero parte di quel mondo. << La prima sera che sono uscito con Chris sono finito in un parchetto con il suo amico Eric che inseguiva il suo cane Bell nel fango portando un pacco da dodici della birra più economica che si potesse comprare, la Schmidt. Quello era il loro concetto di festa e per me era fantastico. È andata avanti così per anni >>.  Matt Cameron, riportando alla mente quel periodo, in un’intervista ha confessato: << Qualche volta mi chiedo se non ci fosse un vuoto che Chris sentiva dopo la morte di Andy, un vuoto da riempire con un altro cantante di talento con cui confrontarsi e relazionarsi. Si è dedicato a Eddie quando si è trasferito qui e so che Eddie lo considerava un mentore. Penso che gli abbia infuso la fiducia necessaria per affrontare la musica che aveva di fronte a sé >>.

  • Neil Young: La leggenda del rock canadese e internazionale si è guadagnato l’appello di “Zio Neil”: dalla prima partecipazione dei Pearl Jam al Bridge School Benefit, organizzato annualmente dall’artista allo Shoreline Amphiteather di Mountain View, in California nel 1992, al primo tour insieme nel 1993, alla pubblicazione di Mirror Ball e Merkin Ball (contenente I Got Id e Long Road), al discorso di Vedder pronunciato in occasione dell’introduzione di Young nella Rock ‘n’ Roll Hall Of Fame nel 1995… sino a Rockin In The Free World che, spesso, è eseguita come sacra conclusione dei live della band di Seattle. Un connubio artistico ed umano da cui, per certi versi, è dipesa anche la stessa sopravvivenza del gruppo. Eddie Vedder: << Una volta, all’epoca del secondo album, Io e Neil ci siamo seduti a parlare. Mi ha detto: “Non lasciare la band. Scommetto che ci sono un sacco di persone che ti stanno consigliando di fare qualcosa per conto tuo”. Ho pensato, sorridendo: “No, non me l’ha mai detto nessuno! Quindi non ti preoccupare. Ho intenzione di rimanere con i ragazzi” >>.
  • Pete Townshend: << Avrò avuto più o meno nove anni quando la babysitter mise sul piatto Who’s Next. Tremarono le mensole, scricchiolarono le finestre… e fu il rock ‘n’ roll! Quadrophenia mi salvò praticamente la pelle. Vedevo la mia vita riflessa in quella di un ragazzo che stava dall’altra parte del mondo ed era pazzesco. Mi sono reso conto che Pete Townshend ha rappresentato per me una figura paterna più di chiunque altro. Non gli ho mai spedito una cartolina per la Festa del Papà e mi sento in colpa per questo >>. Eddie incontra per la prima volta il suo idolo a cavallo tra il 2 e il 3 agosto 1993, mentre questi si trova nella Bay Arena per la promozione di Psychoderelict con alcuni concerti solisti. Il chitarrista degli Who ha espresso la volontà di incontrare uno dei nomi più ricorrenti del nuovo panorama musicale e Vedder non può di certo rifiutare. << Al nostro primo incontro mi ha detto: “Aiutami non sono sicuro di volere tutto questo” >> – afferma Pete – << Ho risposto: “Non credo che tu abbia scelta. Una volta che sei eletto devi agire da sindaco. Non hai scelta”. Deve averlo aiutato. Credo che all’epoca una parte di lui desiderasse scappare e vagabondare sulle spiagge di Maui >>.
  • Bruce Springsteen: << Alive e Jeremy sono state le loro prime canzoni che ho sentito. Mi ha colpito la voce di Eddie, era insolita per l’hard rock. Possedeva una sorta di tremolo folk che la rendeva unica nel suo genere. Ho sempre pensato che quel tremolo fosse in grado di arrivare dritto al cuore creando intimità nel bel mezzo di un suono violento. Sapevo che la strada che li stava conducendo fuori dalla scena alternativa sarebbe stata tortuosa e piena di problemi. Quando provi ad esprimere le tue emozioni più profonde e scopri che moltissime persone vogliono ascoltarti, si crea una situazione paradossale che ti spinge a rifugiarti in te stesso. Ogni giovane artista, però, deve tracciare una linea di confine delimitando un luogo in cui si stente a proprio agio nel darsi agli altri, proteggendosi. Quel tremolo nella voce e la potenza della band mi dicevano che Eddie e i Pearl Jam avrebbero dovuto affrontare questo genere di prova >>. Per indole, ispirazione, autenticità comuni alla base del modo di concepire e creare musica, tra Vedder e Springsteen nasce un legame che, nel tempo, sfocerà nelle innumerevoli “ospitate” sui rispettivi palchi, nell’omaggio al Boss con My City of Ruins durante la serata di celebrazione al Kennedy Center nel 2009, fino alla partecipazione tra il pubblico di Eddie e famiglia a una delle date del fortunato spettacolo di Bruce Springsteen On Broadway.

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CINQUE FILM

  • Singles, Cameron Crowe (1992): In quella che appare come una commedia sentimentale, Cameron Crowe porta in scena il panorama musicale esploso a Seattle a inizio anni Novanta (nel cast ci sono anche Chris Cornell e Layne Staley). Vedder, Gossard e Ament vestono i panni dei Citizen Dick, band guidata da uno dei protagonisti, Cliff Poncier (interpretato da Matt Dillon). Ammette il cantante dei Pearl Jam: << Non so come avrei fatto a lasciare il lavoro che avevo a San Diego, se non fosse stato per Singles. Mi dava sicurezza, non lo dico ironicamente. Fare il film è stata un’avventura. Assistere a tutto quello che succedeva in città… mentre ero lì e stavo imparando. Ed ecco un film che parla di queste cose e riunisce tutta questa gente. E poi avevo ricevuto 1000 dollari per dare a Matt Dillon tre lezioni di chitarra: ecco come ho tirato avanti >>. La colonna sonora della pellicola viene pubblicata dalla Epic Soundtrax il 26 giugno 1992 e contiene due brani inediti dei Pearl Jam, State Of Love and Trust e Breath.
  • Dead Man Walking, Tim Robbins (1996): Nella prestigiosa soundtrack del film interpretato da Sean Penn che annovera la partecipazione di Bruce Springsteen, Tom Waits e Patti Smith, si inserisce anche il nome di Eddie Vedder, in duetto con Nusrat Fateh Ali Khan, famoso esponente della musica sufi. Due i titoli: Face Of Love e Long Road, rivisitata nelle atmosfere di una toccante marcia funebre.
  • Big Fish, Tim Burton (2004): Il 10 novembre 2003, sul sito del Ten Club è possibile acquistare il CD singolo di “Man Of The Hour”, brano scritto da Vedder per il film “Big Fish” di Tim Burton. Si tratta della prima uscita “in proprio” della band dopo la fine del contratto con Epic/Sony. Oltre ad essere candidata come come miglior canzone ai Golden Globe e ai Critics’ Choice Awards, Man Of The Hour offre una nuova e riflessiva lettura sul tema della paternità, tanto significativo per l’autore, che diventerà padre di Olivia a sette mesi dall’uscita della canzone.

  • Into The Wild, Sean Penn (2008): << Eddie è una persona che ho in mente ogni giorno per la musica. Non gliene avevo nemmeno parlato prima di aver finito il film. Non conosceva il libro. Ma due giorni dopo lo stava già leggendo e mi ha chiamato per dirmi: “‘Devo farlo” >>. Dall’amicizia tra il regista/attore e il cantante nata sul set di Dead Man Walking scaturisce una delle produzioni più preziose e fondamentali della carriera di Vedder. La storia vera del viaggio di Chris McCandless, narrato dapprima nelle pagine di Nelle Terre Estreme di Jon Krakauer, è musicato dal frontman dei Pearl Jam con brani acustici e spunti che si intrecciano direttamente nella sceneggiatura. << C’era qualcosa nell’aria, non si poteva negare che qualcosa stava succedendo >> –  dice l’autore – << La stesura dei testi è stata così facile e la musica si combinava in modi strani, per cui le battute cadevano su una portiera di macchina che sbatteva o l’organo si connetteva al modo in cui le le spalle di Emile [Hirsch, l’attore che interpreta Chris McCandelss] si muovevano su e giù. È stato quasi come se qualcuno mi stesse aiutando da una dimensione non tangibile. C’erano degli elementi davvero strani e bellissimi che ci hanno aiutati nella composizione >>. Guaranteed, uno dei gioielli di Into The Wild, vince il Golden Globe il 14 gennaio 2008
  • Twin Peaks, sedicesima parte, terza stagione (2017): Nell’aprile 2016 viene ufficializzato il cast della terza stagione di Twin Peaks, che arriva a 26 anni dalla seconda. Tra gli oltre 200 attori, figura anche il nome di Eddie Vedder. È Laura Dern, che nel nuovo Twin Peaks interpreta Diane, ad incentivare il coinvolgimento di Eddie Vedder, suo amico di vecchia data: << Sarebbe perfetto in Twin Peaks >>. Il brano composto per la serie tv porta il titolo di Out Of Sand, una ballata acustica che cattura così bene lo spirito della storia che quando David Lynch ascolta il demo esclama: << È fantastica, sarà suonata al Roadhouse. Amo questa canzone >>. Dopo averla eseguita nei suoi concerti da solista, prima all’Ohana Festival nel 2016, poi il 7 giugno 2017 a Londra e il 26 giugno 2017 a Taormina, Out of Sand risuona tra le pareti dello scenario fittizio del Roadhouse di Twin Peaks durante la sedicesima parte della terza stagione di Twin Peaks. Con grande stupore di tutti Eddie Vedder viene presentato con il suo nome di nascita, Edward Louis Severson, mai più usato dopo la firma del testo di Alive.

CINQUE EPISODI

  • Del Mar Pavilion, San Diego – 28 dicembre 1991: Una delle prerogative che renderà il nostro festeggiato famoso in tutto il mondo, è la rischiosa stravaganza delle sue arrampicate sulle americane, sulle impalcature dello stage, su qualsiasi struttura sufficientemente alta per poi lanciarsi fra le braccia del pubblico. A distanza di poco più di un anno dal suo debutto con la band, Ed alza la posta delle acrobazie, scalando i tralicci durante Porch. << L’unica cosa scalabile era alta trenta metri. Ho pensato: “Sembra una bella impresa, vediamo che succede”. C’era un asse che potevo stringere con una mano, ma quando sono arrivato in cima mi sono ritrovato appeso a testa in giù per i piedi e le dita attaccati a un trave a forma di H. Sul serio, le parti di dita che mi sorreggevano erano oltre le nocche. La trave era sporca e dal pubblico saliva l’umidità. Grazie al cielo pesavo solo 54 kg. Stavo sfidando la gravità. Dovevo percorrere altri quindici metri prima di arrivare a una catena da cui pendevano le luci e a cui potevo aggrapparmi. In sala c’erano i miei familiari, non potevo morire di fronte ai miei fratelli. Sono sceso fino all’impianto luci, ho preso una corda del microfono e con quella mi sono lasciato penzolare fino al palco. Alla fine della canzone sono andato al lato del palco e per poco non ho vomitato. Ero stato uno stupido ma ero attraversato da un flusso di energia proveniente da chissà dove. Avevo il tipo di forza che permette a una madre di alzare un’automobile pur di salvare il figlio di due anni. Era quel tipo di impresa >>. Mike McCready ricorda: << Quella volta si era spinto oltre. Gliel’ho visto fare tante volte e mi ha sempre innervosito, ogni volta pensavo che sarebbe morto. Se non altro non si è ammazzato >>.
  • Cabaret Metro, Chicago – 28 marzo 1992: Nel marzo 1992, dopo aver iniziato un tour nel Nord America come headliner, i Pearl Jam si esibiscono al Cabaret Metro di Chicago. Tra il pubblico ci sono The Edge e Larry Mullen Jr degli U2, Jimmy Chamberlain e D’Arcy Wretzky, batterista e bassista degli Smashing Pumpkins. Si uniranno alla band per suonare le cover di Widow Paine dei Pumpkins e I’ve Got A Feeling dei Beatles. Vedder dà inizio all’usanza di scattare Polaroid del pubblico ogni sera dal palco. Al Washington Post spiega il motivo: << Lo faccio per ricordare. Sta succedendo tutto così in fretta >>.

  • Hawaii – 2003: il cantante sta navigando con degli amici nel canale di Pailolo, tra Maui e Malokai, quando la barca a vela, improvvisamente, si rovescia. Delle cinque persone cadute in acqua, alcune riescono a risalire. Vedder e due donne, invece, restano in balia delle onde dopo che l’imbarcazione viene allontanata da una folata di vento. In seguito a ore di attesa e di ricerca di soccorsi, un certo Signor Baxter, assieme alla figlia Ashley, si accorge del gruppo in difficoltà, si avvicina e lo trae in salvo. Nel 2013, Eddie racconta la vicenda e dedica Future Days proprio ad Ashley. “Back when I was feeling broken / I focused on a prayer / You came deep as the ocean”. Anni dopo la disavventura, i Pearl Jam hanno donato 70.000 dollari alla famiglia Baxter per aiutare Keith a fronteggiare le spese mediche a seguito di un incidente che gli ha quasi causato la perdita della gamba.
  • Seattle, casa della madre di Andy Wood: Fra le pagine di “Andy Wood. L’inventore del grunge: vivere (e morire) a Seattle prima dei Pearl Jam”, l’interessantissimo viaggio alla scoperta e riscoperta del frontman dei Mother Love Bone scritto da Valeria Sgarella, si legge un curioso aneddoto. Durante l’intervista con Toni Wood, madre del protagonista delle vicende, la donna tiene a precisare: << Ti stai sedendo sul divano che mi ha regalato Eddie Vedder >>. Ebbene sì, la casa, a pochi chilometri dal porto, dove oggi vive la mamma di Andy è il risultato di un crowdfounding sostenuto da Vedder e compagni.
  • Visarno Arena, Firenze – 24 giugno 2017: Sono 50.000 i fan accorsi per la prima data del leader dei Pearl Jam in Italia, senza la sua band. Un live indimenticabile per la portata storica, per quella artistica, per il grado di empatia e, soprattutto, per l’indescrivibile componente emotiva. L’elaborazione collettiva di un lutto di cui Vedder si è fatto aiutante, mentore e guida. Il ricordo di Chris Cornell, scomparso soltanto un mese prima, in quel commosso e disperato “come back”, nella chiusura di una delle versioni più toccanti di Black mai eseguita. Il brivido che si tramuta in magia quando, su Imagine di John Lennon, la scia luminosissima di una cometa squarcia il cielo fiorentino, disseminando meraviglia, sgomento, sognante incredulità e portando tutti con gli occhi al cielo, dove, quella sera, dovevano stare.

LAURA FACCENDA

Dopo aver conseguito la laurea in Lettere Moderne e Contemporanee, prosegue gli studi nell’ambito della comunicazione e del giornalismo. Sulle orme delle sue due grandi passioni, la musica e la scrittura, frequenta il workshop di giornalismo musicale organizzato dalla rivista Rumore e il corso in Marketing, Management e Comunicazione della Musica presso la Santeria di Milano.

Ha fatto parte della redazione del sito web di notizie e media Spazio Rock, Just Kids Magazine, Vez Magazine e dello staff dell’agenzia media/stampa Bizzarre Love Triangles. Scrive attualmente su Onstage e MusicAttitude. Lavora anche come blogger, content creator e copywriter creativa.