Some Die Just To Live: il nostro ricordo di Kurt Cobain e Layne Staley

A venticinque anni dalla morte di Kurt Cobain e a diciassette da quella di Layne Staley, la nostra Laura Faccenda ricorda due degli artisti più importanti e influenti usciti dal movimento di Seattle.

Spesso i numeri sono sinonimo di razionalità, spiegazione necessaria, certa, inconfutabile. Esistono casi in cui la loro sequenza è, invece, il racconto di un destino.

Due nomi: Kurt Cobain e Layne Staley.

Una missione in comune: la musica, e proprio quella Musica lì: autentica, trasparente, sofferta, cruda, densa di parole, specchio di storie vissute, grotta di fantasmi, rifugio di speranza. Infiniti i demoni, le deviazioni, le cadute. Il reiterato tentativo di rialzarsi. Un unico, abissale vuoto.

Una generazione, insieme a quella che poi ha scelto di abbracciarne l’eredità, che ha ricevuto voce tramite la loro voce. La stessa generazione che ha avvertito la vertigine, il disorientamento, il taglio, il crudele passaggio dopo la medesima scena finale, a distanza di qualche anno, ma in quella città, Seattle, che ha accolto la vita, ha vibrato di suoni e melodie irripetibilmente distorti, ha pianto, troppo spesso, la morte.

Ci sono due brani dei Pearl Jam che, per me, sono da sempre la colonna sonora di questo giorno.

Immortality, con la dedica di Vedder a poche ore dalla scomparsa: “Che ti piaccia o meno, a volte la gente ti mette su un piedistallo… cadere è molto facile. Nessuno di noi sarebbe qui se non fosse per Kurt Cobain“.

https://www.youtube.com/watch?v=_AKLofHtO4U

Devo ammetterlo, abbiamo tanti pensieri in testa. È difficile suonare. Personalmente credo che non dovremmo farlo. È molto strano, ci sentiamo svuotati” – Eddie Vedder

04/20/02, scritta per Layne nel giorno del ritrovamento del suo corpo, esanime, a quindici giorni dall’overdose che lo aveva stroncato. L’accompagnamento di una chitarra, “accordata come se fosse un banjo“. Brano che è diventato la ghost track di Lost Dogs: “Credo che Ed fosse molto arrabbiato e che volesse semplicemente tirare fuori tutto. […] Voleva che restasse nascosta, così avreste dovuto cercarla e rifletterci su” – ricorda Mike McCready.

Una riflessione che Eddie aveva elaborato anche in precedenza sullo stile di vita del suo amico. Non sempre era stato tenero a riguardo. Ora il giudizio viene sospeso (No blame, no blame), chiunque sarebbe potuto essere al suo posto e, soprattutto, tutti lo sapevano, nell’ambiente.

Non so se lui cercasse di esorcizzare certe cose che gli stavano succedendo o se cercasse di rendersi insensibile a quelle cose. Spereresti sempre che la musica, o scrivere canzoni, fosse sufficiente a raggiungere tale scopo…”.

Ed è proprio alla musica che sono dedicati le ultime righe dell’epitaffio. Talvolta l’unica chiave di lettura, la sola risposta di fronte a domande grandi come le tragedie che le fanno sorgere. L’arte universale a cui sono stati affidati le ombre dei demoni più oscuri e la riconoscenza per essere riusciti ad imprimere in versi, in note. Paradiso e inferno, imperituri, dove certe parole non scompariranno mai. Le stesse parole che ci hanno fatto sentire meno soli, ci hanno reso parte di qualcosa, hanno infuso rabbia, forza, speranza, hanno riaperto e curato ferite.

Ci hanno tenuto in vita e, più di una volta, ce l’hanno salvata.

 

LAURA FACCENDA

Dopo aver conseguito la laurea in Lettere Moderne e Contemporanee, prosegue gli studi nell’ambito della comunicazione e del giornalismo. Sulle orme delle sue due grandi passioni, la musica e la scrittura, frequenta il workshop di giornalismo musicale organizzato dalla Rivista Rumore e il corso in Marketing, Management e Comunicazione della Musica presso la Santeria di Milano.

Ha collaborato con il sito web di notizie e media Spazio Rock e con l’agenzia media/stampa Bizzarre Love Triangles. È attualmente collaboratrice e free lancer in webzine e radio (Just Kids Magazine, PearlJamOnLine, Staradio)