Cosa ne so dei Pearl Jam?

Viaggio nella generazione di mezzo: quelli che vengono dopo i primi e prima di quelli che verranno dopo
DI ANTONIO VENTOLA | FOTO: HENRY RUGGERI | 23 AGOSTO 2018

A casa si è sempre ascoltata musica. Mamma con i cantautori italiani, fan girl sfegatata ancora oggi di Baglioni (basti pensare che avrebbe voluto chiamarmi Claudio, ma poi ha vinto il nonno), papà con i suoi Police e Tears for Fears. Tra i parenti ci trovo Celentano, Jovanotti tra i più giovani, ma di chitarre con un l’overdrive manco l’ombra. È in questo contesto che nasco il 21 dicembre 1992, dopo ben 16 ore di travaglio e, a sentir parlare di mia madre, un brutto bambino. Come dargli torto dopo tutta quella sofferenza. Da moro con occhi scuri, dopo qualche mese perdo i capelli e divento biondo con occhi azzurri. Valla a capire la genetica. Si ok, va bene direste voi, ma cosa c’entra sta storia con pearljamonline.it? Tornate un attimo su e rileggete la data: 21 dicembre 1992. Ten aveva già 16 mesi, a giugno di quell’anno Eddie si lanciò sulla folla del PinkPop ed i Pearl Jam tutti si preparavano alla data di fine anno al The Academy di New York. Ed io torturavo mia madre, perché mi ero addormentato nella placenta. Che cosa ne so io dei Pearl Jam? Io non li ho vissuti dall’inizio, non ero al Flaminio quando aprirono agli U2, non partecipavo ai dissing con i fan dei Nirvana, non regalavo cassette alle ragazze con all’interno Black. Scarrozzavo col girello, cosa ne so dei Pearl Jam?

https://www.youtube.com/watch?v=778YRvwEpJU&t=1s

Ma torniamo a metà anni ’90. Non mangio molto (chi mi conosce ora si sta facendo una risata), mi nutro di sport e la mia ninna nanna è Heal the World di MJ. La musica è nell’aria, ma ovviamente non ho una mia identità. Sento, più che ascolto. Poi arriva il giorno della prima comunione ed il regalo più bello è uno stereo. Uno stereo tutto mio. Eh, ragazzi, ora posso registrarmi anch’io le cassette finalmente. Devo partire in gita con la scuola e non c’è niente di meglio che Ci sono anch’io degli 883 e Ciao di Dalla. Il Roskilde è stato già pianto e con Riot Act ci si incazza di brutto. Io sto con Max Pezzali nelle cuffie, cosa ne so dei Pearl Jam?

Prima il walkman, poi il lettore CD alle medie. La mia identità musicale inizia a prendere un po’ di forma e dopo qualche anno arriva anche il primo concerto da fan (ovviamente accompagnato da mamma): il tour di Italiano Medio degli Articolo 31 passa dalla mia città, col cavolo che me lo perdo; anche se il giorno dopo devo andare a scuola. E ci sono andato con sciarpetta del concerto annessa nello zaino. Però succede una roba che ancora oggi non mi spiego. Mio padre decide, spinto da non so cosa, di comprare il cd/dvd Live in Texas dei Linkin Park. Mio padre, quello dei Bee Gees. E sapete cosa c’è, la chitarra distorta è veramente cazzuta. C’è però anche il rap e quindi in terza media si va di 50 cent con cappellini e pantaloni giganteschi. Però è un casino, perché un mio amico si dà al metallo, dato che ha la sorella metallara, e quindi nel mio lettore CD della Logitec fanno a staffetta Usher e i Metallica. Intanto, dall’altra parte dell’oceano, c’è il Vote for Change, Mike ha già cambiato capigliatura ventordici volte e l’ “avocado” sta maturando. Ma io sto pensando alla tesina della terza media. Cosa ne so dei Pearl Jam?

Succede che i capellini da rapper fanno spazio alle catene, che i felponi fanno spazio al chiodo e alle camicie a quadri, che le nike fanno spazio alle Dr. Martens. Un po’ in ritardo con la moda anni ’90, ma vuoi mettere? Succede anche che iniziano le superiori, che vado al mio primo concerto da solo (Deep Purple, 2007), ma soprattutto succede che si inizia a suonare. La musica “fatta” apre orizzonti e confronti con i pari età, ma sono i consigli dei grandi che contano. Questi “amici grandi” (che all’epoca avevano la mia età di adesso) sono una coppia e oltre alle vacanze insieme (lei, Rossana, è figlia di amici di famiglia) mi adottano e ogni tanto si fa serata con loro. Si va in una casa in montagna (sono pugliese e quindi la montagna sta a me come il mare per quelli del nord), e lui, l’amico grande, mette su sempre un DVD: Immagine in cornice. «Se guardi bene mi vedi tra le prime file. Prendilo, ascoltatelo a casa». Boom. La voce di Eddie, le chitarre di McCready e Gossard, il basso di Ament e i batteristi tutti iniziano a farsi spazio in maniera prepotente nell’mp3, quello da 500 mega. Tempo un mese l’hanno monopolizzato: Alive è un mantra, Black consola le prime delusioni adolescenziali e decido che il verbo deve essere diffuso tra gli amici. I fan dei Nirvana tirano fuori robe vecchie che manco loro sanno, ma altri li porto con me. Sono innamorato, li ho appena scoperti, con Rossana si canta Sometimes e vivo delle storie che loro, i grandi, mi raccontano. Ma in fondo, cosa ne so dei Pearl Jam?

All’improvviso la mia vita ha finalmente una nuova colonna sonora, è ben definita ed il sogno di vederli dal vivo riempie le mie giornate. Fantastico con i miei amici, pogo su Porch: sulla tabella di marcia sono in ritardo, ma nella mia testa è tutto nuovo. Traduco testi e con essi guadagno valori, a volte anche inconsciamente. Ma di concerti se ne perdono tanti: troppo lontani dalla Puglia, troppi soldi da spendere. Intanto la coppia di amici grandi non è più una coppia, ci soffro, è il primo colpo duro legato ai PJ, ma rimango vicino a Rossana. E senza che me lo dicesse, so bene che Eddie la sta consolando. Come ha fatto con me, come ha fatto con milioni di persone. Arrivano le magliette, i CD se li ascolta pure mio padre in macchina. Da solo. Quello degli Earth, Wind & Fire ora ha la compilation Rearviewmirror nello stereo della macchina e, se viaggiamo insieme, cantiamo Even Flow (senza azzeccare manco una parola, figuriamoci). Sono gli anni in cui Indifference, Present Tense, Immortality, Sleight of Hand e Garden mi accompagnano nei giorni cupi, ma è l’urlo di Jeremy che mi porta in un’altra dimensione. Di concerti, però, ancora niente. E allora, cosa ne so dei Pearl Jam?

Passano altri anni, Eddie ormai è già arrivato ai più con Into the Wild, ma finalmente arriva la grande occasione. Milano, San Siro, Giugno 2014. È dicembre, il grande giorno dell’apertura delle vendite: «Dobbiamo prendere il pit. Non esistono cazzi». Lo dico alla mia ragazza, Alessia, che sapete dov’è? A casa di Rossana: perché il primo concerto si dovrà vedere assolutamente insieme. Sono ad un evento di lavoro, non posso assistere all’acquisto, ma la testa è lì. Sono le 10.00, hanno aperto, e sul mio cellulare non arrivano notizie. Finisce l’agonia, corro da loro, apro la porta e le trovo scure in volto. Temo per il peggio. «Non siamo riuscite a prendere il pit, si va in curva». Scoppio a ridere, lancio qualche insulto, ma chissene, si va a San Siro! I mesi non passano mai, ma alla fine giugno arriva. Si va vicino Como a dormire, a casa di un amico di Roberto, il nuovo e definitivo (!!!) “lui” di Rossana. Abbiamo il posto numerato, quindi niente fila infinita, ma allo stesso tempo è vietata la troppa calma, dato che danno l’Italia allo stadio. Alla fine, però, finisce che la calma è troppa: siamo fuori San Siro, si sente un boato e non capiamo il perché. Presi dal panico entriamo e scopriamo che ci siamo persi Porch in acustico. La mia ragazza me lo rinfaccia ancora oggi. Inizia il conto alla rovescia, partono le scommesse sull’orario di inizio e all’improvviso partono gli accordi di Release.

Tremo, la voce non esce ed il video che provo a fare dura qualche secondo. L’emozione è troppo grande. C’è ancora la luce del giorno al “Meazza” e lo striscione del secondo anello arancione è ben visibile. Cala il buio e la scaletta è tutto ciò che ho sempre sognato. Rimango solo, sia mentalmente che fisicamente. Le ragazze hanno deciso di scendere alla ringhiera: «Siamo al primo anello e si vede meglio» dicono. Mi godo il concerto al mio posto fino a Daughter, poi vengo convinto a scendere. Ed è ora che succede qualcosa che difficilmente riesco a descrivere. Mentre scendo gli scalini, Jeff intona la fatidiche note al basso. Percepisco un brivido a me sconosciuto, è qualcosa che mi colpisce nel profondo. Continuo a scendere consapevole della ladrata che sto facendo, canto la strofa a testa bassa guardandomi i piedi e mi concedo solo un’alzata di braccia al «Raised in a v».

Si vede meglio, hanno ragione, ma ciò che percepisco di più è il calore della gente. Ero troppo nascosto al mio posto, dato che l’unione tra l’ultima fila del primo anello e la base del secondo creava una situazione ovattava. Ora c’è aria, c’è potenza ed il momento più importante sta arrivando. Il secondo ritornello è finito, si inizia a fare sul serio. Sguardo dritto verso il palco, «Try to forget this» urlato con rabbia, si salta e poi eccolo: il momento vissuto per anni nella mia testa si rivela più incredibile di quanto immaginassi. Preso dall’euforia alzo gli occhi e mi accorgo che non ho più un tetto di cemento sopra la testa, ma sto urlando ad altre 60mila persone intorno a me. Che fanno la stessa cosa. È un’onda d’urto incredibile, butto fuori tutto il fiato che ho nei polmoni e alla fine Jeff conclude l’opera. La mia ragazza mi si avvicina, consapevole dell’importanza di quel momento: «Ma stai piangendo?». Io sorrido, basta questo. Ho appena vissuto uno dei momenti più incredibili della mia vita. Il concerto va avanti, è tutto perfetto, ma poi un tizio inizia a far girare una catena d’oro gigantesca sopra la sua testa e mi rovina l’assolo di Alive con annesso coro. Finisce, San Siro si svuota e dentro di me è ancora festa. Ma è solo il primo concerto, in curva per giunta. Cosa ne so dei Pearl Jam?

Quattro anni infiniti. Subito dopo il concerto arrivò il bootleg e per fortuna, grazie a quel genio/pazzo di Alessandro F. che ha creato un capolavoro su Youtube, il CD è ancora intatto. Nell’inverno 2015 c’è il sentore di un possibile nuovo tour nel 2016 e allora, reo di ciò che era successo prima, vai di iscrizione al Ten Club. Uno nuovo step importante: perché stavolta il pit non me lo toglie nessuno. Mi hanno tolto il tour però. Il rinnovo dell’iscrizione diventa ogni anno un’abitudine ed io mi sento sempre più jammer, nonostante sotto il ponte siano passati altri concerti di altrettanti artisti di spessore (doppietta U2 niente male). A casa succede altro nel frattempo: qualcuno inizia a rubarmi le magliette e la musica dei PJ proviene dalla stanza accanto. Il seme era stato piantato in qualcun altro in famiglia ed io manco me ne ero accorto. Un’altra anima che non sapeva e non sa nulla dei Pearl Jam: mia sorella, Chiara, classe 2001. Duemilauno.

Ora divento io quello che racconta l’esperienza del concerto, sono io “l’amico grande”. In un niente si arriva all’autunno 2017 e all’annuncio del tour 2018. Finalmente posso sfruttare al massimo il Ten Club e stavolta, finalmente, è pit. Nonostante le bestemmie della mia ragazza per l’ennesima rinuncia ad una vacanza in favore di un concerto, sarà di nuovo lei la mia compagna di viaggio. E mia sorella? Penso che abbia vissuto i mesi da jammer più tristi della sua vita: discussione con i miei (è piccola e sarebbe comunque andata a Firenze a vedersi Waters. Quindi un solo concerto e basta, semicit.), discussione con me che avevo preso i biglietti senza di lei e, ovviamente, colpo al cuore per il sottoscritto. Per fortuna il suo ragazzo corre in soccorso e mi invia un sms: «So cosa è successo tra di voi, ho preso io i biglietti per la tribuna, ma non dirle niente. È il suo regalo di Natale». Il regalo arriva, mi becco uno «Stronzo» e le sue lacrime di gioia, ma alla fine siamo tutti contenti. Si va all’Olimpico. Questa volta giugno arriva in un battito di ciglia e con esso anche la notizia della voce persa. Ansia c’è, ma non troppa, perché di loro mi fido. Passa Milano con super critiche e i vari «vendete il vostro biglietto fin che siete in tempo» annessi. Padova risponde super presente (Rossana questa volta era a sentirsi Crazy Mary ed i suoi commenti post-concerto sono iper-rassicuranti), mentre a casa, da entrambe le stanze vicine, vien fuori solo una musica. Le scalette del tour sono stupende. Rosico, ma non troppo. Perché? Beh, “LEI” non c’è. Non l’hanno ancora fatta e nel mio cuore so che il basso di Jeff suonerà ancora per me. Lo spero, più che altro perché la storia del povero ragazzo americano ha colpito in pieno anche mia sorella e vorrei che anche lei provi le mie stesse emozioni di Milano 2014. Il 26 giugno arriva: si parte alle 2.45, in piena notte; sono nel pit, l’obiettivo è la fila più vicina possibile, il sogno è la transenna. Nel bus mi addormento con la voce di Eddie nelle orecchie, un po’ come succedeva quando mia madre usava quella Michael, e al mio risveglio siamo già nel quartiere olimpico. Colazione e pronti per una lunghissima attesa. Qui la mia scarsa esperienza si rivela decisiva: alle 9.00 sono già in fila, ma per prendere i biglietti Ten Club, ignorando completamente che la vera fila è all’entrata dello stadio. Siamo i secondi ad avere il diritto al ritiro dei biglietti, ma i 228esimi nella “coda vera”. Va beh, mi dicono che è così da sempre e alla fine io cosa ne so io? A Milano stavo pure in curva. L’attesa è infinita, il caldo si fa sentire (e pensare che giù in Puglia c’è l’Apocalisse), ma il primo tempo di Nigeria – Argentina è finito: qualcosa di importante sta per iniziare. Con mia sorella siamo anche riusciti a beccarci da lontano e quindi tutto è pronto. Io sono pronto. Nella mia testa sono convinto che inizieranno con Long Road ed è per questo che Gossard mi coglie di nuovo di sorpresa. Stavolta l’onda di Release mi colpisce da più vicino, riesco a scorgere i sorrisi della band e ho già tutto lo stadio intorno e sopra di me. Le lacrime arrivano subito, non c’è bisogno di aspettare a questo giro. L’adrenalina cancella la stanchezza, passa un’oretta e mezza e poi… Jeff non mi delude e lo rifà. Il basso rosa suona di nuovo, la mia ragazza si volta e mi sorride, ma io penso a Chiara. Perché sono contento che ci sia anche lei. Lei che non sa nulla dei Pearl Jam, lei che è del 2001, lei che non è stata a Milano nel 2014, lei che ancora non ha vissuto i Pearl Jam sulla sua pelle come ho fatto io, lei che non ha desiderato tanto come ho fatto io, lei che dopo una performance incredibile ancora non riesce a comprendere ciò a cui ha assistito, lei che è esattamente il mio riflesso nello specchio.

https://www.youtube.com/watch?v=hMzqWLECBx8

Come io sono il riflesso di Rossana e di tutti coloro che sono nati prima di me. Come la bambina che ha raccolto davanti ai miei occhi il tamburello, e non sa proprio niente di niente dei Pearl Jam, sarà il riflesso di mia sorella. «It’s evolution baby», ma una importante, piena di musica, valori e sensazioni positive. Perché, in fondo, nessuno sa niente dei Pearl Jam, ma tutti li conosciamo.

«Hold on to the thread
The currents will shift
Glide me towards you
You know something’s left
And we’re all allowed
To dream of the next
Oh, the next, time we touch

You don’t have to stray
The oceans away
Waves roll in my thoughts
Hold tight the ring
The sea will rise
Please stand by the shore
Oh, oh, oh, I will be
I will be there once more»

 

ANTONIO VENTOLA

Nasce il 21 dicembre 1992 ad Andria, pienissima Puglia. Vive nel caldissimo Sud, ma è costantemente convinto di avere antenati norreni. Collabora con testate locali, nel tempo libero fa finta di gestire e di giocare in una società di pallacanestro e di notte sogna di saper suonare la cornamusa. Dategli un palla e vi racconterà una storia. Dategli uno strumento e vi racconterà una storia. Dategli una storia e lui ci scriverà qualcosa. “Oh, if I knew where it was I would take you there, but there’s much more than this”.