Yield #20: La storia del quinto disco in studio dei Pearl Jam

ARTICOLO TRATTO DA barracudastyle.com

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Vent’anni fa usciva Yield: andiamo a scoprire tutti i segreti del quinto disco in studio dei Pearl Jam.

«Yield è stato grandioso perché la musica nasceva così velocemente che era impossibile starci dietro con i testi, e i testi che gli altri hanno scritto sono qualcosa che mi rende davvero orgoglioso e felice di cantare»
– Eddie Vedder

Jeff Ament: «Yield fu un disco davvero divertente da fare. E questo fu dovuto soprattutto al fatto che Eddie si mise un po’ da parte. Lavorammo a tutte le nostre canzoni prima di lavorare alle sue. Fu una cosa enorme».

Dopo un disco come No Code, in cui il classico formato canzone era stato parzialmente accantonato, con Yield i Pearl Jam ritornano a una dimensione rock più convenzionale, musica filtrata attraverso gli occhi di uomini ormai trentenni, più maturi e, perché no, anche più a loro agio con i media. La pubblicità legata a Yield è infatti la più grande che abbia mai coinvolto la band fino a quel momento: un clip promozionale in cui si vede una macchina sfrecciare su una strada desolata con Given to Flyin sottofondo è destinato alle televisioni, mentre la band accetta di farsi fotografare dal celebre Anton Corbijn per una serie di affascinanti scatti promozionali. Rotto il ghiaccio, il gruppo torna anche a concedere interviste.

Come mai questa improvvisa apertura verso l’esterno? «Volevamo presentare al meglio questo nuovo disco, nessun altro motivo particolare oltre a questo», spiega Ament, mentre Gossard ironizza: «Potrebbe essere l’occasione giusta per ricordarci perché non abbiamo fatto interviste negli ultimi cinque anni e, magari, tornare a non farne più per i prossimi cinque».

Yield esce nei negozi il 3 febbraio 1998. È anticipato dal singolo Given to Fly, pubblicato a gennaio, la cui copertina – riprodotta anche nel booklet del disco a corredo del testo della canzone – è una suggestiva fotografia scattata dal basso della statua di Arturo Martini collocata a Roma, in Via dei Fori Imperiali, davanti all’ingresso della chiesetta dei Santi Cosma e Damiano. Sul lato B ci sono Pilate, sempre da Yield, e Leatherman, un pezzo scartato dall’album.  Si tratta di una perla composta dal solo Vedder, vicina al punk e alla new wave dei primi anni ottanta, che richiama vagamente anche i primi Police. Leatherman parla di un vagabondo del Nord Ovest, Jules Bourglay, realmente vissuto tra metà e fine Ottocento e che tutti chiamavano “uomo di cuoio” per via del suo abbigliamento: un vestito di pelle cucito a mano. L’uomo si spostava di paese in paese, vivendo nelle caverne, nascosto nei boschi. «Un giorno, era inverno, stavo facendo un’escursione con il mio amico Tim e i suoi figli, e ci siamo imbattuti in una delle sue vecchie caverne», racconta Eddie. «Quella notte ho scritto non una ma due canzoni su quell’uomo. La seconda, poco creativamente intitolata Leatherman II, non è mai stata pubblicata e tra le due è senz’altro la più cupa».

Vedder rimane colpito dalla bizzarra storia di quest’uomo e ipotizza una sua possibile parentela con il solitario uomo di cuoio («Così oggi me ne vado per la mia strada con la mia giacca scolorita / Proprio come l’uomo di cuoio con cui potrei essere imparentato»). La sua fascinazione per l’eremitismo e per i vagabondi che scelgono stili di vita alternativi e a contatto con la natura lo porterà qualche anno dopo a imbattersi nel vagabondo romantico per eccellenza dei giorni nostri: Chris McCandless.

Given to Fly è quindi la canzone scelta per presentare l’album. Non viene girato alcun video a supporto del singolo, ma il gruppo sta solo aspettando il momento e la canzone giusta per infrangere anche questo tabù. La struttura del brano richiama fortemente i Led Zeppelin e la loro Going to California. McCready, autore della musica, ammette: «Ho sentito così tante volte i dischi dei Led Zeppelin che è facile che mi abbiano influenzato inconsciamente nella stesura».

Il testo porta la firma di Vedder ed è riconosciuto come uno dei suoi più intensi e profondi. Non si sa esattamente chi o cosa abbia ispirato questa canzone e la sua bellezza sta proprio nel fatto che è evocativa e aperta a ogni interpretazione. Alcuni ipotizzano che il testo possa riferirsi a Jeff Buckley, annegato nel fiume Mississippi proprio nel periodo in cui la canzone fu composta. In realtà i riferimenti alle onde e al mare rimandano principalmente al surf, passione mai sopita di Vedder – tesi avvalorata dalla foto inserita nel booklet in corrispondenza del testo: la testa di Vedder che spunta, minuscola, dal mare, mentre con tutta probabilità sta facendo surf («Arrivò all’oceano, si fumò una sigaretta su un albero / Il vento si alzò, lo mise in ginocchio [sulla tavola da surf?] / Un’onda arrivò schiantandosi come un pugno sulla mascella / Gli donò le ali, “Hey, guardatemi adesso” / Braccia spalancate con il mare ai suoi piedi»). Altri sostengono che parli di Gesù, poiché alcuni riferimenti simbolici alluderebbero alla sua vita. Senza volerla interpretare necessariamente in senso cristiano, è comunque una grande storia di riscatto attraverso l’amore («Ridiscese fluttuando perché voleva condividere / La sua chiave per i lucchetti delle catene che vedeva dappertutto / Ma prima venne spogliato e poi fu pugnalato / Da uomini senza volto, beh stronzi / Lui è ancora in piedi / E dà ancora il suo amore, solo che lo regala / L’amore che riceve è l’amore che è messo da parte / E qualche volta si vede uno strano punto nel cielo / Un essere umano a cui è stato concesso di volare»).

Vedder ne parla durante un’intervista del 1998, ovviamente a modo suo: «Mi immagino la canzone come un libro cartonato di venti pagine per bambini, con una frase su ogni pagina e una foto che la illustra. È una favola, tutto qua. La musica ti trasmette questa sensazione quasi di volo e amo davvero cantare la parte finale, che parla di alzarsi sui commenti che la gente fa su ciò che fai e di continuare a donare il tuo amore. Senza diventare amaro e chiuso in te stesso, senza condannare il mondo intero per le azioni di pochi».

Yield si posiziona al secondo posto della classifica di Billboard – battuto solo dalla colonna sonora del colossal Titanic – e vende 358.000 copie nella prima settimana, raccogliendo recensioni positive dalla critica. «La promozione fa la differenza», aveva detto Vedder solo qualche anno prima. Come dargli torto?

Brendan O’Brien, ancora una volta produttore del disco, confessa che c’era una precisa volontà da parte della band di creare le loro migliori canzoni. Come pezzo di apertura viene scelto Brain of J.,  scritto da McCready e già scartato da No Code. Su un grintoso riff di chitarra e una ritmica sorretta dal lavoro energico di Ament, Vedder canta con forza e urgenza un testo che invoca la nascita di un nuovo mondo.

Anche Faithfull è scritta da Vedder e McCready. Caratterizzata da un saliscendi sonoro che sfocia in un evocativo coro, è una riflessione sull’agire senza aspettare risposte dall’alto («A prescindere dai concetti a cui ci rifacciamo nelle nostre preghiere / Quello lassù è abituato a tutto questo rumore / Io ne ho abbastanza di urlare»). Vedder si interroga sulla fede in un Dio inteso come entità superiore, che pare disinteressarsi ai destini umani («M-i-t-o è / Credere nei comandi del gioco che ci tiene nella scatola della paura / Non ascoltiamo mai la voce dentro così affogata»). L’unica fede possibile, sembra voler dire Vedder, è quella nell’amore («Io tu, tu io, è tutto collegato / Cosa dovrebbe fare un ragazzo? / Sii solo gentile e sarò anch’io / Fedele a te»).

Il rapporto del cantante con la religione è complesso: «Non ho problemi ad affrontare la spiritualità nelle canzoni, ma a farlo a parole durante una conversazione, specialmente quando so che verrà pubblicata. È una cosa individuale: mi sono aperto ad alcune teorie interessanti. La parola ‘religione’ ha delle connotazioni così negative per me, è stata responsabile di guerre, e non dovrebbe essere per niente così, si tratta solo del modo in cui il significato della parola si è evoluto, per me. Mi devo chiedere cosa abbiamo fatto su questo pianeta prima della religione. Ma non ho problemi a parlarne. Puoi guardare al passato, questa cosa c’è nel disco, e tutto quello che puoi vedere è l’arroganza dell’uomo: vediamo la nostra storia come se esistessero solo gli ultimi 20.000 anni, e stiamo per celebrare l’anno duemila, che non sarà altro che una momentanea occasione per ubriacarci, e questo significa solo che il primo giorno del nuovo millennio ci sveglieremo con un tremendo mal di testa. È analogo a quello che stiamo facendo a noi stessi. Rimane da vedere se ci sveglieremo il giorno dopo e ci purificheremo come uno potrebbe fare dopo un’enorme abbuffata. Penso che il duemila non significhi un cazzo, ma se ci può portare a un qualche tipo di riflessione, allora sarà grandioso. L’uomo è in giro da tre milioni di anni, e quando è arrivata la religione? Non penso che la religione meriti di essere commentata. Penso che ci sia qualcosa di molto più grande che sta succedendo ora».

Da un sincopato giro di chitarra scritto da Gossard prende vita No Way, un’atipica rock song che si fa apprezzare per la sua ritmica quadrata e che ricorda altri episodi isolati della discografia dei Pearl Jam, come Tremor Christ. Interessante notare che le liriche del pezzo sono scritte da Stone Gossard. Dopo alcune apparizioni durante il tour di YieldNo Way sarà accantonata per molto tempo, salvo poi essere riscoperta a distanza di più di dieci anni.

Dopo Given to Fly c’è Wishlist, composta da Vedder. In questo testo, romantico ma non stucchevole, Eddie si apre un po’, facendo la sua personale lista dei desideri («Vorrei essere il souvenir / A cui appendi la tua chiave di casa / Vorrei essere il pedale del freno  / Su cui fai affidamento / Vorrei essere il verbo “fidarsi” / E non deluderti mai»). Con un piccolo tocco di sentimentalismo, la Camaro a cui Vedder fa riferimento nel testo è l’auto di sua moglie Beth.

Wishlist inizialmente spiazza molti fan ancora legati al sound che la band aveva a inizio carriera, ma nel corso anni diventa una delle ballate più apprezzate.  Durante il Riot Act Tour, in coda saranno spesso inserite delle improvvisazioni sull’educazione, sulla guerra e sul mondo in generale.

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Foto tratta dall’artwork di Yield

Pilate parte da una base acustica per svilupparsi in un rock ‘n’ roll che pare chiamare in causa Louie Louie dei Kingsmen. È stata composta totalmente da Jeff Ament, anche se non rappresenta di certo il meglio della produzione del bassista, almeno a livello musicale. Più interessante e affascinante, invece, la genesi del testo, ispirato al libro di Mikhaíl Bulgakov Il maestro e Margherita. È il primo testo dei Pearl Jam scritto interamente da Jeff e si può decifrare meglio nelle parole del suo autore: «Penso che Pilate fosse la domanda che mi stavo facendo, e Low Light sia stata la risposta, la realizzazione. Avevo appena letto Il Maestro e Margherita di Bulgakov, che verso la fine parla di Ponzio Pilato che se ne va su una montagna, tutto solo, col suo cane.  Non riusciva a dormire e a funzionare. Mi ha davvero colpito molto, perché in quel momento mi sentivo molto solo. Ho sempre avuto questo sogno ricorrente in cui sono vecchio e ci siamo solo io e il mio cane seduti in veranda. Non è necessariamente un sogno triste o una premonizione, ma mi ha fatto riflettere sul perché Pilato fosse così solo e fuori controllo. Poi ho compreso che lui non era riuscito a finire la sua conversazione con Gesù e questo è il motivo per cui non riesce a funzionare, perché non ha risolto le questioni in sospeso nella sua vita. Più tardi, stavo suonando la chitarra e sono stato colpito da un’incredibile, fortissima emozione. In quel momento, sono uscite le parole ‘low light’ e sembrava che fossero le uniche in grado di spiegare quello che sentivo. Era una specie di gratitudine per aver trovato un luogo di calma e di pace interiore e per aver avuto una visione su che tipo di persona potevo scegliere di essere. Quella particolare emozione è stata la felicità più pura che io abbia provato da molto tempo. Dio, pensavo di esplodere. Mi sento molto fortunato per essere riuscito a registrarla quella mattina e a lavorarci sopra fino a farla diventare una canzone».

Do the Evolution è uno dei pezzi più importanti dell’album ed è posta significativamente a metà. Introdotta da un aggressivo riff scritto da Gossard – che in studio si occupa anche dell’assolo e della linea di basso – con il suo groove sanguigno e aggressivo si candida subito a diventare un classico della band.

Screenshot tratto dal video di Do The Evolution

Mentre sono impegnati a registrare, i Pearl Jam stanno leggendo Ishmael, un libro di Daniel Quinn.  Do The Evolution traduce le idee del libro in musica: una riflessione amara sui temi del progresso e dell’evoluzione. «Il libro è una conversazione tra un uomo e una scimmia», spiega Vedder. «La scimmia sembra molto più intelligente. Capisce la differenza tra lei e l’uomo e sottolinea quanto entrambi siano insignificanti, mentre l’uomo pensa di essere il fine di tutto. Ovvero di essere l’unico fine di tutto sulla terra. La terra invece esiste da prima dei suoi tre milioni di anni. Sono cinquanta milioni di anni di squali e di tutti gli altri esseri viventi. L’uomo esce dalla polvere e tre milioni di anni più tardi cammina eretto e ora controlla tutto l’ambiente circostante, uccidendo gli altri essere viventi. Tutto questo solo negli ultimi cinquant’anni! Che cosa stiamo facendo?».

A perfetto corollario di un brano apocalittico come Do the Evolution c’è una traccia di poco più di un minuto, senza titolo; viene infatti segnalata nella tracklist con un punto rosso  ed è corredata da una foto scattata in un campo di concentramento in Europa. Questa scheggia impazzita affronta, con un linguaggio inquietante e privo di un vero e proprio testo – solo un falsetto che ripete «Guerra, sono pazza / Guerra, sono pazza / Sono la guerra» – l’angoscia per la per la folle direzione che l’uomo sta imprimendo al mondo. Si tratta dell’unico pezzo composto da Jack Irons, che nello stesso periodo rielabora in studio una sua vecchia composizione scritta ai tempi dei Red Hot Chili PeppersSmall Mosquito, che non entra a far parte del disco ma verrà usata come musica di apertura per gli show del tour di Yield.

M.F.C.  è la canzone scritta da Vedder durante il suo soggiorno a Roma, mentre era imbottigliato nel traffico. Il suo debutto avviene proprio sul palco del Goa, durante lo show segreto del dicembre 1996. È una cosiddetta “car song”, una canzone che parla di fuga e che troverà il suo terreno migliore dal vivo, spesso suonata subito dopo la sua gemella musicale, Untitled.

Low Light, composta dal bassista Jeff Ament, è una delle vette del disco. Sotto forma di una delicata ballata, è una riflessione poetica sugli stati d’animo mutevoli. Attraverso immagini che richiamano l’elemento naturale («Nuvole corrono veloci / Dicono di muoversi / O sono soltanto io? / Vento soffia, luce soffusa»), il testo descrive il percorso interiore del protagonista, alla ricerca di una luce che lo riporti a casa («Ho bisogno della luce / Troverò la mia strada da cosa è sbagliato, cos’è reale? / Il sogno, lo vedo»).

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Il luogo reale dove è stata scattata una nota fotografia presente all’interno dell’artwork di Yield

In Hiding, musica di Gossard e testo di Vedder, è ispirata a Charles Bukowski, come dichiara Eddie: «Sean Penn mi riferì una frase che Bukowski gli aveva detto una volta, e la canzone è stata scritta a partire da quella citazione. Charles disse a Sean che ogni tanto aveva bisogno di scomparire per qualche giorno, senza avere nessuno intorno. Così andava a nascondersi, e una volta tornato avrebbe ritrovato la voglia di vivere». Nel booklet, in corrispondenza della canzone, al posto del testo è effettivamente riportata la citazione attribuita a Buk, diminutivo di Bukowski (“il primo volto umano che vedrai ti rimanderà indietro del 50%”) e c’è un ringraziamento speciale a Sean Penn.

Vedder: «La canzone parla di prendersi un digiuno dalla vita, fare qualsiasi cosa ti possa riportare in contatto con qualcosa di reale. L’astinenza da ogni cosa è forte, perché la normalità della vita è ingannevole: è godibile per un po’, può avere dei buoni momenti, ma spesso non basta. Cominci a chiederti quale sia il senso. Sono stato in grado di raggiungere quello stato non aprendo la bocca per giorni. Alla fine, Jack mi ha chiamato e non riusciva a capire cosa stessi dicendo. Mi ci è voluto un minuto per riacquistare l’uso della parola».

In un’altra intervista, Vedder sostiene di essersi ispirato anche a un racconto da lui stesso scritto: «Avevo scritto un po’ di racconti e uno parlava della ricerca della casa di J.D. Salinger.  Poi ho pensato “Perché non trasformarlo nella ricerca della casa di Dio?” – come se fosse un recluso o qualcosa del genere; trovi la sua casa, apri la sua cassetta della posta e scopri che è piena di pubblicità spazzatura».

La solitudine e l’isolamento sono temi che da sempre affascinano Vedder, che appena può scappa a fare surf. Non è un caso che In Hiding includa dei versi che rimandano alla prospettiva di un surfista travolto da un’onda: «Sei colpito fortissimo e nuoti più veloce che puoi, finché capisci che stai nuotando nella direzione sbagliata e hai toccato il fondo. In effetti, non è così male perché almeno puoi spingerti al largo. Hai toccato il fondo ma ti rimane una sola direzione da seguire». Il pezzo gode di un ottimo airplay radio e raggiunge il tredicesimo posto nella Mainstream Rock Tracks di Billboard. Curiosamente, la band decide di non pubblicarlo come singolo e lo fa uscire solo come promo per le radio.

Il penultimo brano, Push Me, Pull Me, è musicato da Ament su testo di Vedder. La musica è un groviglio di noise, rumori di sottofondo, suoni interrotti, nastri riavvolti; su questo bizzarro tappeto sonoro, Vedder s’inserisce con uno spoken word dai toni cupi. Partendo dall’assunto iniziale della morte come destino inevitabile («Avevo una convinzione sbagliata, pensavo di essere venuto qua per restarci / Siamo tutti qui in visita, ci infrangiamo tutti come onde»), il testo pone domande esistenziali apparentemente senza risposta («Gli oceani mi hanno creato, ma chi si è inventato l’amore?» / «Se non ci fossero stati angeli, non ci sarebbe stato il peccato?»), per tornare a una riflessione disincantata sul destino dell’uomo («Se mi comporto bene, puoi prepararmi una fossa spaziosa nel terreno? / In qualche luogo carino, rendilo carino, dove la terra incontra l’alta marea»).

Il disco termina sulle note di All Those Yesterdays, una bella ballata che ricorda i Beatles, scritta da Stone Gossard. Il testo è un invito a cercare una propria via di fuga, lasciando da parte le preoccupazioni e gli affanni della quotidianità («Non è un crimine scappare, non è un crimine scappare / C’è ancora tempo, allora scappa»). Un messaggio di speranza, finalmente positivo.

L’album ha anche una ghost track, un mantra orientaleggiante con percussioni, voci e mani che battono al tempo della parola Hummus ripetuta più volte. L’hummus è una salsa a base di ceci, solitamente consumata insieme a focacce di pane azzimo, molto diffusa in tutti i paesi arabi, e la cui origine si perde nell’antichità. Quale modo più bizzarro, colorito e ironico di chiudere un album così pervaso di spiritualità?

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Immagine tratta da “Pearl Jam: Art Of Do The Evolution”, in uscita nei prossimi mesi

I temi della fuga e del viaggio si riflettono anche nella confezione del disco. La copertina è una foto, modificata a 360 gradi, scattata da Jeff Ament nel suo Montana, e raffigura uno spettacolare panorama con una strada deserta che si perde in lontananza sotto un cielo di nuvole bianche. In primo piano c’è il cartello stradale che nei paesi anglofoni indica il dare la precedenza, piuttosto bizzarro trattandosi di una strada in linea retta, priva di incroci.  Ancora più singolare il fatto che, aprendo il lato esterno del digipak, lo stesso segnale all’interno risulta collocato in mezzo a una distesa d’acqua. Il concept dell’album si ricollega infatti all’idea di cedere il passo alla natura, tema centrale del libro di Daniel Quinn.

McCready: «Penso che il titolo Yield abbia a che fare con l’essere più a nostro agio con noi stessi, con questa band. Siamo tutti un po’ più vecchi e un po’ più rilassati, e forse più disposti a cedere alle ansietà e non cercare di combatterle tanto. Questo è quello che rappresenta per me – cedere, lasciare che qualcos’altro succeda e adeguarsi».

L’artwork del booklet è curato da Carpenter Newton – pseudonimo scelto da Stone Gossard – e include una serie di suggestivi scatti in bianco e nero, alcune raffiguranti i membri della band in giro per il mondo e corredati dai testi delle canzoni. Spiritualità e natura sono i temi esplorati anche visivamente. L’artwork di Yield apparentemente è più semplice e lineare di quello di No Code, ben più elaborato e ricco di simboli. In realtà, anche qui è presente un elemento simbolico, anche se ben nascosto: spetta all’attento osservatore il compito di scovarlo. Il simbolo è lo stesso della copertina, il segnale stradale di precedenza, incorporato in modo quasi impercettibile in piccoli dettagli di ognuna delle fotografie. Ai Pearl Jam piace giocare con i propri fan. Nell’edizione italiana del disco, i fan trovano anche un inserto con tutte le traduzioni delle canzoni, accompagnato da una nota.

«Tra ottobre e dicembre dell’anno scorso, mentre ero in Italia, mi sono emozionato nello scoprire un libro con la traduzione completa (dall’inglese all’italiano) di tutte le canzoni che avevo scritto per i Pearl Jam. Più tardi, quella stessa sera, l’ho fatto vedere a dei miei amici e mi sono fatto tradurre in inglese la versione italiana. Ne sono rimasto orripilato.  Era un libro pieno di menzogne.  Se ciò che avevo composto aveva un senso positivo, era interpretato negativamente e così via. Non erano le mie canzoni, ma c’era il mio nome e sulla copertina c’era anche la mia faccia. Che cosa deve fare un ragazzo? . Ora, ci sono circa 8 miliardi, 354 mila 986 problemi in questo mondo che sono più importanti di questo. Comunque, per chi fosse interessato alla questione, o che ha cercato di capire le parole delle canzoni, ho tentato di avere e di inserire nel prossimo disco delle traduzioni adeguate. Così eccole qua. Se ci sono discordanze, prendetevela con me e non con Francesca. Sono noto per cambiare una riga o due all’ultimo. Grazie per l’ascolto… e per la lettura

Firmato Ed Vedder, 12/97.

I membri della band sono molto cambiati durante la realizzazione di questo disco, come conferma lo stesso Vedder: «Se vuoi essere onesto come artista, quando diventi adulto non puoi continuare a esprimere lo stesso genere di emozioni di cui parlavi in gioventù, perché risulteresti falso. Quello che in passato era rabbia, ora è diventata riflessione. Penso che quando diventi adulto devi esprimere la tua energia in un modo diverso, più tranquillo. Questo non significa dimenticare il lato cattivo della vita, perché c’è ancora nelle nostre canzoni. Ma quello che è più eccitante ora, la vera sfida, è affrontarlo da un punto di vista più positivo, cercando un modo di risolverlo».

«Ci sono novità sostanziali in questo disco», dichiara Gossard. «La più importante, quella che sentiamo più forte, è che stiamo crescendo notevolmente come band. Questo è certo. Voglio dire, sappiamo meglio come si fanno i dischi, quali sono i nostri tempi e i nostri modi ideali di lavorazione. Stavolta è migliorata ancora di più la nostra capacità di essere una band, di lavorare davvero tutti insieme. Si è sempre trattato di contributi individuali combinati tra loro, questa è sempre stata la base dei Pearl Jam. Ma in questo nuovo lavoro la cosa è stata ancora più intensa e profonda, abbiamo raggiunto una migliore alchimia. Con Yield abbiamo alzato il livello della nostra stessa intesa comune. Perché quello che ci preme di più, comunque, è sviluppare al meglio le nostre idee, fare buona musica e cercare di migliorare sempre come musicisti».

Come scriveva una bella recensione dell’epoca, Yield è «un lavoro dalle linee armoniche mai davvero gridate ma capaci di entrare dentro sin dal primo ascolto e attecchire immediatamente ai centri di comando. E fra vent’anni saranno ancora lì, perché contenute in un album notevole e fatto per restare».

Parti di testo tratte da Pearl Jam Evolution
Foto di Anton Corbijn, Kudlate Sluchanie, Kurt Griczen e Jerome Carpenter