Intervista a Vedder da Rolling Stone USA

Pearl Jam: The Second Coming

Rolling Stone | Giugno 2006

by Brian Hiatt
Grazie a Flipside, Unkept Hope & Walty per la traduzione.

“Hey, Eddie!”

È appena passata la mezzanotte nella sonnecchiante Cleveland, e Eddie Vedder – con in mano una valigia e addosso una stretta giacca di velluto – si sta dirigendo verso il Ritz-Carlton Hotel. Qualcuno urla il suo nome, lui si gira.
Un giovane repubblicano esce dall’oscurità e attacca “Bush 2008, Bush 2008!!! Jeb (Bush) si candiderà”, poi il ragazzo provoca Vedder – uno dei principali promotori del Vote for Change Tour – facendogli il gesto con il pollice in su, in attesa che lo stesso perda le staffe. Vedder lo fissa per un attimo, poi mormora “Ok, man” ed entra.

Il provocatore sembra abbattuto. In ascensore, Vedder ride mostrando le fossette sotto la sua barba morrisoniana: “Se cercava di farmi incazzare, non ha funzionato. Forse era un grande fan di Gavin Rossdale?”
Qualche anno prima Eddie avrebbe reagito alle provocazioni. Era il Vedder che riceveva un Grammy con le gentili parole “non ha alcun significato”, quello che gridava a un fan di lasciarlo in pace davanti a un reporter. Ma ora ha 41 anni e nei 10 anni passati da quando si accigliava su Alternative Nation ha sviluppato un forte senso dell’umorismo. L’amore con la modella Jill McCormick e la figlia Olivia – che ha i suoi stessi occhi blu – non hanno guastato. E ci sono altre ragioni dietro la pace interiore.

Gossard: “Eddie è in un momento di pace mai visto prima”.
Lo stesso vale per i Pearl Jam, nonostante o forse proprio per il fatto che negli ultimi 10 anni non abbiano fatto altro che allontanarsi dalla loro fama. Rifiutando video e apparizioni tv, lanciando una scontata e autolesionista battaglia contro Ticketmaster, realizzando una serie di album introspettivi a partire da No Code. Sono andati in tour senza sosta e sono diventati una delle grandi band da stadio che ha attirato un seguito stile Grateful Dead per concerti-maratona sulla scia di Springsteen, Who e U2. Ma per i non fan la band è sembrata scomparire. Non si è mai sciolta, sebbene Mike ammetta di che ci sono andati vicini qualche volta.
Ora i Pearl Jam reclamano il loro posto in trincea. Sono freschi, affamati e carichi secondo il boss della BMG, Clive Davis, che ha da poco procurato loro il secondo contratto major della carriera. In maggio hanno pubblicato Pearl Jam, disco dalla spiccata energia punk rock anti-Bush. Universalmente acclamato come il migliore da Vitalogy e il primo da Ten a contenere inni, “è come se avessimo consegnato il compito in tempo, ottenendo tutte A e B, ma non abbiamo alzato la mano e risposto in classe. Lo ha fatto il disco.”
E il mondo ascolta: il disco ha passato un mese in Top 20, e il singolo in stile “Ramones incontrano gli Who” World Wide Suicide è stato un successo che ha portato la band nelle radio. La band mostra un’inedita voglia di promozione (snl e dls) per far sentire la propria voce politica. “È un momento critico per la nostra democrazia. Noi rappresentiamo l’America, abbiamo la stessa influenza di Rush Limbaugh. E se lui ‘parla’ attraverso la sua piattaforma, noi dobbiamo fare lo stesso”.

Seguire i Pearl Jam per cinque date a maggio durante la prima parte del tour americano è come ritrovarsi con i vecchi compagni del liceo; non li hai visti per anni, ma sei sorpreso dal fatto che siano cambiati senza che tu abbia potuto vederlo.
In contrasto con l’immagine di un tempo (privi di umorismo, paranoici, sempre sul punto di implodere), ora sembrano allegri e rilassati. Come molti artisti in giro da tempo, non ne passano molto assieme fuori dal lavoro. “Ci concediamo spazio a vicenda, perché in tour sei tutto il tempo l’uno di fronte all’altro” dice Matt.
Ma i ragazzi sono così a loro agio da permettere a un estraneo di seguire le loro prove e non mollarlo quando salgono/scendono dal palco. Si scambiano pugni contro pugni di incoraggiamento prima di ogni show e la seconda sera Mike ne dà uno anche a me.
Eddie vede la band come un esempio di democrazia funzionante: un po’ è dovuto all’essere insieme da più di 15 anni, che trasmette alla gente la possibilità di una cosa simile.
Ma i Pearl Jam sono anche dittatoriali; anche Gossard – fondatore della band e autore di buona parte della musica nei primi anni – si è arreso di fronte al ragazzo che a volte chiama “Ed Ved”. “A un certo punto Eddie ha capito di essere la figura centrale della band”, dice un Gossard i cui capelli corti e occhiali farebbero pensare a un addetto informatico. “Se cantassi come lui e fossi capace di creare la stessa energia, vorrei la stessa possibilità di dire ‘questo non mi sembra ok’. Potrebbe fare molte altre cose, ma ha scelto i Pearl Jam. È fantastico farne parte”.

Backstage alla Grand Rapids Arena, Michigan. Mentre a pochi metri una sfida a ping pong impazza, Vedder e io sediamo su sedie ripiegabili e guardiamo lo schermo di un Macintosh. I power chords di Life Wasted escono dalle casse. Stiamo guardando il nuovo video della band, appena realizzato, il primo in cui appaiono da Jeremy (1992). Vedder guarda in silenzio, tenendo il ritmo con il piede.
Il video molto artistico, non è una buona scommessa per la classifica di Total Request Live. Esplora i temi della canzone, morte e rinascita, attraverso la messa in scena di sculture dei membri della band sottoposte a esotiche forme di abuso – sono bruciati vivi, immersi in acqua e infestati da vermi e insetti. In mezzo a tutto ciò, alcuni momenti di Eddie che canta e la band che suona. Mentre il video finisce, chiedo se sia stato realizzato al PC. Eddie sembra prenderla male, spiegando che un artista multimediale di nome Fernando Apodaca ha creato le figure in sei mesi, filmando delle vere sculture. I ragazzi hanno dovuto fare calchi delle loro teste e Vedder ha sacrificato le ciglia nel processo. “I libri medici dicono che dovrebbero tornare”, dice mostrando il suo attuale look.
Per fare il video la band ha dovuto superare la sua convinta avversione a tale forma; quando Jeremy vinse come video dell’anno, Vedder sentì che il nome del premio dovesse essere migliore pubblicità per il tuo cd. “Volevamo uscire da quel giro”, aggiunge con un sorriso, “venivamo da una posizione simile a quella dei nativi d’America, che credono che nel momento in cui ti fanno una foto, ti viene succhiata una parte dell’anima”.
Durante la prima ondata di fama, Vedder aveva diverse ragioni di credere che ben più della sua anima fosse a rischio: “C’erano diversi problemi in cui non mi ero mai ritrovato” mi rivela un pomeriggio nella sua stanza al Four Seasons di Chicago, mentre fuma una sigaretta American Spirit e allo stesso tempo, come a riparare il danno, sorseggia del tè.
È vestito in uno stile definibile come “uomo delle caverne”: maglietta, pantaloni in velluto e quello che potrebbe essere l’ultimo paia di Doc Martens del Nord America. Nel suo grembo il suo inseparabile compagno, un notebook nero, con un adesivo del simbolo mod in onore al suo amore per gli Who, dove tiene i testi in via di definizione.
Vedder continua a parlare lentamente: “Qualcuno con grossi problemi mentali e sotto effetti chimici ha finito col prendermi di mira e pensare che tutte le canzoni fossero scritte su di lei e che io fossi il padre dei suoi figli e che fossero il frutto di uno stupro, e che io fossi Gesù… e che Gesù stupri. Tutti a dire la fama, bla bla bla… questa non è fama, questa è una minaccia fisica alla tua vita”. Vedder non entra nei dettagli, ma sembra che il problema abbia raggiunto l’apice tra il ’94 e il ’96. Lui e Beth Liebling hanno messo nuove recinzioni attorno alla loro casa di Seattle e adottato una guardia di sicurezza 24 ore su 24, chiedendo che la Epic aiutasse a pagarla. “Se volete dischi da me, dovete sostenermi pagando la mia protezione” e poi rivela “una donna guidò la sua auto a 50 miglia orarie contro il muro di casa mia quasi ammazzandosi”.
Questa paura – testimoniata nel pezzo Lukin da No Code del ’96 ” (“Trovo mia moglie/ Chiamo la polizia/ Il lavoro di oggi non si farà mai/ L’ultima cosa che ho saputo è che quella pazza stava comprando una cazzo di pistola”) rese difficile per Eddie uscire di casa, contribuendo alla sua fama di recluso scorbutico. Non dice cosa ne sia stato della donna, se non che è viva e che non ci sono procedimenti legali contro di lei. “Sarà sempre un problema”. Eddie cambierà poi casa, fuori Seattle, un posto che non nomina.
Intorno al ’96 Vedder decise che ne aveva abbastanza della fama, dei pezzi di successo – nello studio i potenziali successi erano visti come minacce alla sua vita. La band rifiutò le interviste, Eddie iniziò a eliminare l’elemento orecchiabile delle canzoni, il che potrebbe essere il motivo per cui gran parte del materiale più pop può essere trovato sulla raccolta Lost Dogs. “Sentivo che se il successo fosse cresciuto, noi saremmo stati distrutti e le nostre teste sarebbero esplose come chicchi d’uva”.
È facile dimenticarsi di quanto Pearl Jam, Nirvana e il concetto di grunge fossere grandi nei primi anni novanta. Ten ha venduto più di 12 milioni di copie, la moda grunge appariva su Vogue e la musica del gruppo dominava le radio pop.
Ora i Pearl Jam sono rimasti soli a rappresentare quel periodo, superando i loro pari (Soundgarden, il cui batterista suona ora nei Pearl Jam), i rivali (Nirvana) e gli imitatori (Creed) allo stesso modo. Vedder è restio sul tema: “Questa è la roba di cui non voglio parlare, sono cazzate… dovevi esserci”, mi dice facendo un tiro di sigaretta, “è stato fottutamente intenso: si trattava di veri sentimenti provati da vere persone e si stava portando velocemente il tutto a livello di massa rendendolo uno scherzo. E noi non eravamo uno scherzo”.
Senza video e con poca altra promozione, il secondo album Vs. vendette comunque sette milioni di copie. Il successore cinque e No Code sfiorò il platino. Non tutti erano eccitati.
“Quando abbiamo fatto il passo indietro, io mi sentivo come: aw, amico…”, dice McCready, “ero un po’ spiazzato, volevo continuare a fare video e cose dle genere. Abbiamo la possibilità, non bruciamola”.
Ma ora i membri del gruppo sono d’accordo che quella sia stata la scelta giusta.
“Alla fine non l’abbiamo bruciata, siamo ancora in giro; forse abbiamo perso qualche fan e mi dispiace, ma siamo sopravvissuti come band”.
Gossard: “A posteriori è stato fantastico, era quello che dovevamo fare. Ed ci aveva preso in pieno. Se avessimo ascoltato l’industria o i nostri ego, tutto sarebbe finito giù per lo scarico del cesso”.
Cobain ebbe problemi ancora più grossi col successo e nel suo caso le conseguenze furono più definitive. Passò diverso tempo a discriminare i Pearl Jam sulla stampa – memorabile la sua accusa di essere dei pionieri di un nuovo genere, “la fusione di cock rock, musica indipendente e musica commerciale”.
“Credo che non abbia mai ben inquadrato la band”, dice Vedder seduto su una sedia una sera, “ma credo che se fosse sopravvissuto l’avrebbe fatto. Sono parole grosse, ma credo siano vere”.
Vedder fissa il vuoto, “Mi manca”, dice, “a volte, quando ci si passa una chitarra intorno a un falò o roba così, penso che starebbe benissimo lì con noi. Penso a lui di continuo.”
Vedder e Cobain si riavvicinaro, come risaputo, il 10 settembre 1992 agli MTV Video Music Awards: “Ballammo un lento sotto il palco sulle note di Tears in Heaven di Eric Clapton. Stavamo ballando sul pavimento di una palestra come se si trattasse di un ballo di seconda media”.
Provi rancore?
“No, rispettavo Kurt”.
Chi comandava?
“Bella domanda. Questo è il punto. Nessuno”.

Mike McCready fissa attraverso i suoi occhiali dalla montatura arancione il soffitto della rock ‘n’ roll Hall of Fame di Cleveland, a cui sono appese varie auto coperte di graffiti. Sono parti della scenografia dello Zoo Tv tour degli U2. “Abbiamo aperto per gli U2 in Europa in quel tour”, dice McCready. “Il pubblico ci odiava!”.
È sabato pomeriggio e siamo su Internet per comprare dei biglietti.
McCready, i cui assoli fluidi e un po’ blues contribuiscono a quel “cock rock” disprezzato da Cobain, è un ex alcolizzato dal buon carattere, che correva spesso sul palco nudo. Ai tempi delle sue notti folli, gli altri della band lo trattavano come un fratello minore, ma il suo ruolo è diventato via via più importante: McCready ha scritto la nuova epica Inside Job e per questa volta Vedder canta i suoi testi.
Entrando nella stanza principale del museo, ci ritroviamo di fronte, senza preavviso, una grande bacheca dedicata alla scena di Seattle degli anni ’90. Dentro, in mezzo ad altri artefatti, ci sono i resti di una Stratocaster spaccata, che secondo la targhetta apparteneva a un certo Mike McCready. “Non avevo idea che fosse qui”, dice, con l’aria un po’ sbalordita.
In pochi attimi Mike diventa involontariamente parte dell’esibizione, con i fan che si mettono in fila per fare foto. Intanto, una voce registrata racconta la storia della scena; ci informa che Andrew Wood, il vistoso cantante dei Mother Love Bone, è morto di overdose il 19 marzo 1990.
Una guardia di sicurezza ci sgrida perché stiamo facendo delle foto. Mentre usciamo, McCready ricomincia da dove si è fermata la voce narrante, tornando con la memoria alle prime jam con Gossard, l’ex chitarrista dei Love Bone, poco tempo dopo la morte di Wood. All’epoca non sembrava certo materiale da Hall of Fame. “Eravamo soltanto io e Stone nella casa dei suoi”, dice. “Lui aveva questi riff. Abbiamo lavorato a lungo su Alive, Even Flow e Black, solo io e lui”.
Gossard aveva cercato McCready dopo averlo visto improvvisare “Couldn’t stand the Weather” di Stevie Ray Vaughan a una festa. McCready a sua volta incoraggiò il suo nuovo compagno di band a riunirsi con il bassista dei Love Bone, Jeff Ament. Ament, un candido skater che veniva dal Montana, aveva iniziato un’improbabile amicizia con Gossard nei Green River. Il gruppo, che comprendeva anche il futuro leader dei Mudhoney Mark Arm, era un incrocio tra punk e metal – Gossard era un fan dei Van Halen, Ament preferiva i Black Flag. La band ha contribuito a creare il suono heavy e cupo conosciuto come grunge.

Due sere prima, in un ristorante di Chicago, Ament, che è ancora uno skater – e si veste ancora da skater, porta una maglietta con la testa di una capra (?!!) in un pentagramma – si siedein un separè di pelle. Mentre cominciamo a mangiare, Ament fa risalire la rottura dei Green River a un concerto di apertura per i Jane’s Addiction a Los Angeles: Gossard e Ament erano rimasti impressionati dal rock pomposo, tribale di Perry Farrell, mentre Arm – che ha poi continuato a definire il suono grunge con la band indie dei Mudhoney – era rimasto disgustato da quello che considerava presunzione da stadio.
“Quando abbiamo visto i Jane’s Addiction, ci siamo detti ‘Questo è quello che vogliamo fare’”, dice Ament.
Dopo la morte di Wood, Gossard voleva una band un po’ più dark. Alla fine entrò in studio con McCready, Ament e il battersista migliore della città, Matt Cameron. È là che hanno buttato giù la versione strumentale di canzoni come Even Flow e Alive. Il demo arrivò in qualche modo a Eddie Vedder, un surfista di San Diego impiegato in un distibutore di benzina, che aveva da poco rotto con la sua band, i Bad Radio.
La leggenda vuole che Vedder abbia scritto i testi delle canzoni tutti in una volta, mentre faceva surf. Quella storia, mi dice lui nella sua stanza d’albergo a Chicago, è “vera al 100%”. Ma ammette che un’altra storia che si sente spesso è meno attendibile: che il nome Pearl Jam derivi dalla bisnonna di Vedder, Pearl, che aveva sposato un indiano e faceva sempre marmellata arricchita con vari allucinogeni. La sua bisnonna si chiamava davvero Pearl. Il resto, invece, “sono solo stronzate”.
Quando vengono a sapere dell’ammissione di Vedder, Ament e Gossard sembrano sollevati. Raccontano il vero – seppur meno romantico – racconto dietro al nome della band. Mentre se ne stavano in un ristorante di Seattle alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa per rimpiazzare il loro nome originale, Mookie Blaylock (ispirato alla star dell’NBA), Ament se ne uscì con “Pearl”. La band non decise la seconda parte del nome fino a un viaggio a New York nel 1991 per firmare con la Epic. Gossard, Vedder e Ament andarono a vedere Neil Young al Nassau Coliseum. “Suonò tipo nove canzoni in tre ore. Ogni canzone era come una jam di 15, 20 minuti”, dice Ament. “E cosi’ ‘Jam’ è stato aggiunto al primo nome. O almeno questo è quello che ricordo io.”

Le luci della Van Andel Arena di Grand Rapids si accendono come un’alba improvvisa quando Gossard si lancia nel tortuoso riff di Alive. Vedder assume una posa familiare, stringendo l’asta del microfono con entrambe le mani come se fosse in pericolo di volare giù dal palco, e inizia a cantare, “Son, she said, have I got a little story for you…”
Alive è, con qualche piccola differenza, la storia di Vedder. Quando aveva diciassette anni sua madre gli disse che Peter Mueller, l’uomo che lui pensava fosse suo padre – e che lui odiava – non era affatto suo padre. Il suo vero papà era il primo marito di sua madre, Ed Severson, un ex musicista di piano bar morto anni prima di sclerosi multipla. Vedder, che da allora ha usato il cognome di sua madre, aveva quattro mesi quando sua madre e Severson divorziarono, e lui era cresciuto conoscendolo come un amico di famiglia.
Partendo dalla realtà, il narratore di Alive allude a una relazione incestuosa con sua madre. “Non c’è stato nessun incesto nel mio caso”, dice Vedder. “Ma gente che conosceva mio padre – donne – venivano da me e mi guardavano in un modo che non crederesti mai. Mi guardavano perché ho il suo stesso viso e a quel tempo lui era morto da almeno dieci anni. E quindi non riuscivano a staccare gli occhi da me. E ho visto anche mia madre farlo, mi guardava e basta”.
Vedder ha cominciato a cantare a sei anni – riusciva a eseguire tutte le note alte di Michael Jackson nei vecchi dischi dei Jackson 5. “Quando ho cambiato la voce, mi dicevo, ‘wow, tutt’a un tratto sembro James Taylor’”, ricorda Vedder. Da allora ha ascoltato una cassetta del suo vero padre che canta canzoni di Gordon Lightfood; lo stile è più raffinato, ma Vedder sente qualcosa di familiare in quella voce.
Sul palco a Grand Rapids, Vedder guarda le migliaia di fan con i pugni alzati e aggiunge ad Alive parole che non ci sono nella versione registrata: “Siamo tutti, siamo tutti ancora vivi!” Poi conclude, con una divagazione mentre la band suona a tutto volume, “Lasciate che ve lo dica, non è facile”.

Eddie Vedder cerca di farmi ubriacare. Siamo nella sua camera d’albergo dopo lo show di Cleveland. Apre una Bud con il suo accendino e me la passa – prima che io la finisca, me ne passerà un’altra. Vedder, come al solito, si è già scolato una bottiglia di vino rosso sul palco e di conseguenza beve più piano ora, una Coors (un altro tipo di birra) in mano.

“A dire la verità, ho provato a fare un po’ di concerti senza bere”, dice più tardi riguardo la sua abitudine. “Ma hai presente i baristi che si fanno un drink qua e là mentre i camerieri non possono? Mi sentivo più come un cameriere – come se stessi solamente lavorando.” Vedder fumava erba con frequenza, ma non l’ha più toccata dalla nascita di sua figlia. A un certo punto ha avuto anche una “fase Ecstasy” e ha perfino cercato di creare musica techno. “Ascoltavo tutta questa roba mentre facevo uso di Ecstasy. Ma mi chiedevo, ‘la scrivono mentre fanno uso di Ecstasy?’ Decisi che l’unico modo di farlo era prendere l’Ectasy e poi scrivere musica Ecstasy”, dice ridendo. “Non ha funzionato. Ma mi sono divertito con l’Ectasy.”

Nel backstage, prima del concerto a Cleveland, mi chiede, “sei pronto a stare sveglio fino a tardi?”. Ero pronto. Vedder decide di mettere della musica adatta e scompare nella sua camera da letto. Dopo una breve pausa, il suono del nuovo album degli Strokes riempie la stanza. Si scusa dicendo “ovviamente ho roba molto più strana degli Strokes, ma questo è quello che avevo a portata di mano.”

Per uno che ha passato anni dribblando la stampa, Vedder è una gran bella intervista — affascinante e specifico. Quando si immerge in un aneddoto, la sua voce bassa e risonante è quasi ipnotica. All’inizio dell’intervista, decide di usare un piatto come portacenere e accende la prima delle molte American Spirit che saranno fumate quella sera.

Gli chiedo di Life Wasted, nella quale canta “L’ho affrontata, una vita sprecata / Non tornerò mai più indietro”. Chiude gli occhi mentre parla di come la testimonianza del funerale di un amico possa aiutare a “capire come la vita sia un regalo. Quando te ne vai dal funerale, la strada che segui è importante come qualsiasi altra strada che percorrerai nella tua vita. Hai un nuovo senso di apprezzamento per la vita. E credo che questo sentimento ti può durare per la giornata, per la settimana, ma poi le cose tornano alla normalità e cominci a vedere il vivere, il respirare, il mangiare come cose che ci sono dovute. Credo questa canzone sia lì per ricordarti, ‘questo e’ il sentimento.’ “

Vedder aveva in mente un amico in particolare quando ha scrittola canzone: “La verità è — è una questione delicata e questo è un rapporto intimo e delicato. Lo dico. Fanculo. Pane al pane… metà dell’album è basata sulla perdita di un uomo che si è rivelato il miglior amico che ho mai avuto su questo pianeta. E questo è stato Johnny Ramone.” Tutto a un tratto, i tempi e i power chords che dominano l’album Pearl Jam hanno una spiegazione.

È stata un’amicizia strana: il chitarrista dei Ramones, che è morto il 15 Settembre 2004, — circa un mese prima che i Pearl Jam iniziassero a registrare il nuovo album — era fortemente repubblicano e, secondo molti, non il tizio più caloroso del mondo. “Ridevamo pensando che io lo rendevo un uomo più buono e che lui mi faceva diventare più stronzo,” dice Vedder. Vedder, insieme al chitarrista John Frusciante dei Red Hot Chili Peppers, Vincent Gallo e Rob Zombie, passò ore a casa di Ramone, dove lui gli faceva sentire musica (sul jukebox, non sulla chitarra) e vedere filmini di concerti con Gene Vincent dei Dead Boys. “Eravamo gli studenti di Johnny Ramone, per sempre legati,” dice Vedder. “Non ho mai provato la perdita di una persona con la quale parlavamo così frequentemente, con tale intensità e intimita’.”

Ma ad aiutare Eddie a risolvere il dramma centrale della sua vita è stato un altro celebre amico. La madre di Vedder si trovava nel bel mezzo di un doloroso divorzio da Mueller, quando disse ad Eddie – a quel tempo diciasettenne – la verità sui suoi genitori. Vedder e Mueller erano già in conflitto –– a un certo punto, si dice che Mueller spinse Eddie giù per le scale (Mueller lo nega). Da ragazzino, mi dice Vedder, curava i suoi dolori dovuti a questo rapporto andando in un parco con la sua chitarra e cantando una canzone di uno dei suoi eroi, Bruce Springsteen –– “Independence Day,”, la storia della lotta fra un padre e suo figlio. “Non c’era modo di contenerci entrambi in quella casa.” Nel tour Vote for Change del 2004, Vedder finalmente si è avvicinato personalmente a Springsteen.

Una notte, Vedder e Springsteen –– che notoriamente è riuscito a risolvere i problemi con suo padre grazie alla la musica –– passarono del tempo insieme su un tetto di Manhattan, bevendo tequila. “Parlavamo di politica e poi entrammo nel discorso di politica familiare, una serie di esperienze che ci accomunavano. È stata una conversazione molto intensa,” dice Vedder, in maniera contemplativa. “Mi ha esposto ad alcune verità che lui è riuscito ad accettare in maniera sana, mentre per me erano concetti nocivi. Mi ha aiutato a curare alcune cose con le quali convivevo da tempo.”

Quella notte, Vedder raccontò a Springsteen di quando suonava “Independence Day” e di come la sua musica lo avesse cambiato. “Mi hai aiutato come voce che veniva da un vinile”, gli disse. “Ora mi hai aiutato come essere umano davanti a me.”

Poco più tardi, dopo la conversazione con Springsteen, Vedder andò al matrimonio di uno dei suoi fratelli. Lì si trovò faccia a faccia con il patrigno per la prima volta dagli anni ’80. “Quando finalmente ho dovuto incontrare di nuovo quel tizio, Bruce è stato quello che mi ha dato la giusta mentalità per affrontare la situazione,” dice. “Ho tre fratelli più giovani –– se loro erano condizionati dal fatto che non avevo un rapporto con lui, era abbastanza per perdonare e risolvere le cose. Non volevo che loro dovessero sentirsi divisi fra noi due.”

Ci spostiamo su un altro argomento duro: la fine, nel 2000, del matrimonio di Vedder con Beth Liebling, con la quale stava dai tempi dell’adolescenza. Non spiega il motivo per cui si sono lasciati, ma ammette che fu devastato. Il divorzio accadde nello stesso periodo della più grande tragedia della carriera dei Pearl Jam: nove giovani fan morirono travolti il 30 Giugno durante il loro set al Roskilde Festival in Danimarca. “Puoi immaginare in che posizione vulnerabile mi trovassi,” dice al riguardo. “Mi ricordo che non c’era via di uscita. Ascoltavo The Who by Numbers, e c’è una frase in Slip Kid – ‘Non c’è un modo semplice per essere libero.’ Pensavo, ‘non potrei essere più d’accordo’.”

Poi Vedder ha conosciuto Jill McCormick. Era una modella, una professione che Vedder aveva criticato furiosamente nella traccia tratta da Vitalogy, “Satan’s Bed” (“Che belgli esempi, troietta scheletrica / Modella, modello di vita, rotolate un po’ di modelle nel sangue / Attaccateci sopra un po’ di carne, così ci assomiglieranno”). Ride quando gli chiedo se ora è dispiaciuto per quel testo. “Guarda, la persona di cui mi sono innamorato per caso faceva questo lavoro. Ci sono stati un po’ di giorni in cui ho pensato, ‘Wow, tutto questo sembra contradditorrio’. Ha dovuto passare un test più difficle che innamorarsi di qualsiasi altra persona. E l’ha passato.”

Ma prima del nuovo rapporto, mentre Vedder si disperava ancora per Roskilde e per il suo divorzio, il gruppo andò avanti con il tour. I Sonic Youth aprirono, e la figlia di sei anni, Coco, di Thurston Moore e Kim Gordon venne con loro. “Coco mi regalava disegni, giocavamo a ping pong. Coco mi ricordò di aprire il mio mondo, mi permise di non essere lo stronzo che avevo tutti i diritti di essere. Ho pensato, dopo Roskilde, ‘Ok, questa è la mia occasione, posso essere quello stronzo per sempre.’ Coco mi ha mostrato la luce.”

“E ora ne ho una mia.” Mi mostra alcune foto adorabili di Olivia Vedder, nata l’11 Giugno 2004. Sono quasi le 5 di mattina. Vedder scuote la testa e mi guarda negli occhi. “C’è una cosa che Roger Daltrey mi dice sempre: ‘Sii forte. Ci ho messo un po’ per arrivarci, ma ho seguito il suo consiglio.”