I’ll Open Up: Ten, No Code e tutto quello che c’è in mezzo

Per festeggiare i trent’anni di Ten e i venticinque di No Code, pubblichiamo il personale ricordo “di quei tempi” dell’amico Andrea Riscossa.

Pearl Jam – Seattle, 1990 – Foto di Karen Mason-Blair

Di viaggi, di anniversari, di prime volte e di sogni.

Non ho mai scritto su un diario.

Mai avuto costanza, mai avuto tanto da dire o da dirmi. Neanche negli anni novanta quando, forse, sarebbe stato più interessante farlo. Solo per spiare, oggi, quello che ero, che pensavo sarei diventato. Una specie di diario di bordo di una traversata senza meta precisa e comunque destinata a finire felicemente fuori rotta.
Facciamo il punto: esterno, giorno, lato di un traghetto in mezzo al mare, nelle orecchie la colonna sonora di Flag Day, negli occhi, mare.

Così metto le mani avanti, e abbiamo un contesto. Perché tra i giorni di agosto cerchiati di rosso c’è un certo venerdì 27, che quest’anno ha un peso specifico notevole. Trent’anni dalla pubblicazione di Ten, venticinque da quella di No Code.
Sono giorni che solletico ricordi e memorie, palleggiando tra ascolti integrali dei due album e accorgendomi che coincidono, quasi alla perfezione, con l’ingresso e l’uscita dal Liceo Classico Massimo D’Azeglio. Entro con Ten e un velo di baffetti sul viso ed esco con No Code e un pizzetto verde sotto il mento. In mezzo accadde di tutto, pure un Vs e un Vitalogy. Quindi, benvenuti alla serata di gala delle madelaine, all’oscar del “come eravamo”. Anzi no, perché alla fine dei miei ascolti, e giuro non so perché, mi sono fissato su un particolare che lega i due dischi. Ma ne parlerò dopo, adesso mi aggiusto il papillon e salgo sul mio palco (interiore).

Il microfono funziona?

Bene, innanzitutto voglio ringraziare me stesso, per la coerenza e l’amore profusi in trent’anni. Li ho sopportati nei momenti di crisi, anche quando alla batteria ci finiva uno sconosciuto, li ho supportati anche quando risultava difficile e quando non “mi guardavano più come prima”. Ho compreso che il nostro amore a distanza aveva tempi diversi e che comunque, prima o poi, ci si capiva. Ringrazio tutti quelli che come me comprendono e condividono questo terreno comune. Siamo ancora qua, con in mano biglietti vecchi di due anni ma con speranze e desideri semplicemente ben stagionati. Ecco, ovunque voi siate, grazie.

Non starò a snocciolare statistiche, aneddoti e memorabilia, perché “non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi”. Voglio perciò ricordarmi cosa accadde quella prima volta che Ten mi passò attraverso le orecchie. Perché, secondo me, i colpi di fulmine musicali esistono. E non prevedono mai la monogamia, fortunatamente, essendo il 1991 l’anno in cui uscirono dischi come Gish, Nevermind, Badmotorfinger e Blood Sugar Sex Magik (quel maledetto 24 settembre…).
Ten diventò il primo passo fatto insieme. Fu il primo appuntamento, poi il secondo, poi il terzo e poi…poi si sa cosa segue. C’era una rabbia stupenda, letteralmente. Nei Pearl Jam non ho mai fiutato una vena autodistruttiva o rabbia cieca carica di bile. Le loro canzoni erano racconti di azioni, movimenti, roba che ti costringe a salire sopra i tralicci o a sparire nel pavimento del palco, c’è poco da fare. Fu il primo passo di un percorso fatto insieme, in cui loro diventarono colonna sonora, segnalibro e sapori di stagioni diverse.

Furono la prima pietra di un luogo, che posso chiamare il mio “tempio musicale”. Era fatto di piccoli mattoni a forma di musicassette, che poi divennero CD, e che poi, sempre più, si sono fatti immateriali, così come le mura del mio rifugio musicale si sono fatte labili e osmotiche. Adesso è tutto invisibile, ma è più grande e solido che mai, in continua espansione.
Furono infine la prima scelta. “Continuerai a farti scegliere o, finalmente, sceglierai”, cantava il Vate, e il mio gusto musicale di allora era decisamente passivo. Loro furono il primo disco che scelsi di comprare non perché fosse “di moda” o perché avesse l’autorizzazione delle autorità di allora. E i dischi comprati si ascoltano a lungo, terza regola del mondo pre-napster. Rimane uno dei pochi album che ascolto dalla prima all’ultima traccia senza avere mai la tentazione di saltarne un pezzo.

A quattordici anni scegli un disco, te ne innamori e lui ti lascia, prima del silenzio, con una canzone che sarà l’inizio di molti concerti futuri. Release a sua volta termina con una attesa e una promessa, fatta a un padre o a sé stessi, che ricorda a tutti di aprirsi, di schiudersi se possibile. I’ll open up, questo dovevate tatuarvi, altro che onde. Sono dettagli, ma entrano sottopelle.
Cinque anni dopo mi ritrovo per le mani un disco complicato in un periodo complicato. L’ho compreso solo dopo molto tempo, il disco, intendo. O almeno, ho trovato la mia lettura dei messaggi che penso di averci trovato dentro. E nel pezzo che non ti aspetti mi si accese una lampadina. Di nuovo, folgori e intesa.

Il pezzo è I’m Open, dove di cantato c’è poco, suonato ancor meno ma viene raccontato il dolore del diventare grandi – i miei cinque anni di liceo- e del trucco per andare avanti:

Lying sideways atop crumpled sheets and no covers,
He decides to dream
Dream up a new self
For himself”.

Il mio liceo finì due mesi prima, con la mia amata professoressa si italiano che ci disse solo una cosa, prima di lasciarci andare: nella vita inseguite i vostri sogni e cercate di fare quello che vi piace.
Aveva omesso che sarei morto di stenti senza pensione, ma quelle parole credo mi abbiano un po’ salvato. E i Pearl Jam in quattro righe, dopo avermi spiegato senza pietà che tutti scambiamo la magia con la realtà, salvano tutti col sogno, con il diritto di sognarsi diversi. Il “Trading magic for facts” non è per forza una condanna, non è “So this is what it’s like to be an adult”. Così, come cantavano nel ’78 alcuni signori “The child is grown/The dream is gone”, in quella Comfortably Numb eseguita dai Pearl Jam ventisei volte negli ultimi tre anni. Chissà perché. E chissà perché in quei cinque anni i sogni entravano sempre nei loro testi.

E comunque fu la soluzione a folgorarmi, più che il sogno. Lo scopo, l’effetto, non il mezzo. I’m Open, ecco il mantra.
Sarò aperto, sono aperto, chiudo il cerchio.
Così dai muscoli contratti di Ten, che faceva sentire alla mia generazione come suonasse bene il nostro dolore, si passò in cinque anni alle istruzioni per uscire tutti interi dal primo gradino di adolescenza, per non ritrovarsi maturandi e già cinici, e da lì a poco universitari e disillusi.
E allora chiudo e ringrazio questi trent’anni, e anche quel lasso di tempo chiuso tra due dischi e tanta vita. Ai sogni, alle porte aperte, agli stadi pieni, alla musica che è stata e che sarà. Agli attimi che ricordiamo, anche dopo tanti anni e tanti colpi di fulmine.

È il 2021, sono in nave e nelle orecchie ho ancora quella voce.
La figlia di Eddie Vedder mi spacca a metà il mio lato paterno, troppo sensibile per coprirlo con barba e spalle larghe. Sto raggiungendo la mia piccola, cui auguro, con tutto me stesso, di trovare un giorno le domande di Ten e le risposte di No Code.

ANDREA RISCOSSA

Nato nel 1977, torinese.

Nel 1991 escono Gish, Nevermind e Ten. E nulla sarà più come prima. Una laurea in lettere lo convince a salire su un trattore, mentre una fallimentare carriera nell’illustrazione lo porta alla vita tra cavalli e bambini. Un paio di concerti di Springsteen risvegliano il sacro fuoco della musica, così finisce col fare il finto contadino letterato.  Collabora con Vez Magazine.

Canzone: Rearviewmirror, quote: With you I could never feel alone.