Carrie Brownstein delle Sleater-Kinney intervista Vedder

EDDIE VEDDER [MUSICIAN]

The Believer Magazine | Giugno 2004

Grazie a Livia Daughter 1209 per la traduzione

“Ti ritrovavi sulla copertina di ‘The All-Grunge Special Issue’ o roba del genere, con poster allegati e tutto il resto. E pensavi “Chi è questa gente? Li conosco?” — 

Luoghi, e cosa non sono stati:
Sobborghi della California: scena punk di San Diego
Londra: Marte
Hershey, Pennsylvania: apprezza i commenti politici

Ho incontrato Eddie Vedder dei Pearl Jam a Seattle nel 1998, davanti a un club chiamato The Crocodile Café. La mia band (le Sleater-Kinney) suonava quella sera e Eddie si è avvicinato e si è messo in fila dietro a me e a una delle mie compagne. Si è presentato e ha detto che si sentiva come se fosse accanto a Jagger e a Richards. È un complimento che una ragazza non riceve molto spesso.

Non che i suoi commenti abbiano alimentato il mio ego, o fossero commisurati all’idea che avevo di me stessa, ma erano indicativi di qualcosa che, come più tardi avrei imparato, è intrinseco a Vedder: non ha paura di essere un fan, e la musica è un intero universo per lui.

Che stia facendo una cover dei Buzzcocks durante il tour per presentare al suo pubblico qualche punk band inglese degli albori, o che suoni la cover dei Clash “Know Your Rights”, imitando molto bene la voce roca di Joe Strummer, Vedder è desideroso di condividere. Durante il tour che abbiamo fatto insieme nel 2003, ho visto musicisti come Steve Earle o quello dei Dead Boys, Cheetah Chrome, suonare al suo fianco. Beh, in realtà di fronte a lui, visto che spesso si fa da parte per osservarli da fan. Anche quando c’è la sua band in scena. Si fa da parte quando Mike McCready suona da solo, rubando sguardi alla folla, andando avanti e indietro. Qualche volta è come se fosse uno del pubblico, più che il cantante.

Eravamo tutti sul palco una sera, a suonare “Rockin’ in the Free World” di Neil Young, che è la tipica canzone di chiusura dei loro concerti. Ci fu una pausa nella canzone. Credo che i batteristi avessero pensato che i chitarristi avrebbero continuato a suonare e viceversa. Ma invece nessuno di noi suonò. Ci fermammo tutti. Per un momento ci fu solo Eddie: “There are a thousand points of light”… cantò. Non c’era musica dietro di lui. Fu un goffo e bellissimo momento. Si voltò verso di noi sorridendo come per dire “e che cazzo?” e noi riprendemmo col resto della canzone. Mi ricordo in seguito di aver pensato che lui potrebbe fare tutto da solo, ma so che preferirebbe comunque essere parte di qualcosa di più grande, avere la musica che riempie lo spazio intorno a lui, in modo da poter essere un performer e un fan al tempo stesso.

— Carrie Brownstein

I. “È un lavoro pericoloso anche solo cercare di vivere”

C.B. Domani è il giorno in cui smetti di fumare? Vuoi parlarne?

E.V. Sì, vediamo. Beh, è alquanto vergognoso che abbia pensato di doverne parlare con te prima di smettere. Sono ancora al punto in cui credo di poter formulare un pensiero migliore solo con una cazzo di sigaretta in bocca.

C.B. Smetti oggi o domani?

E.V. Beh, domani verrò ipnotizzato per aiutarmi a smettere. E ho anche intenzione di chiedere al dottore se può fare qualcosa per farmi scrivere canzoni migliori. Tipo bridges migliori per le canzoni.

C.B. (Ride)

E.V. Vedremo… quando ci penso, cavoli, ho tante di quelle cose che vorrei migliorare col subconscio.

C.B. Lei ti ipnotizza e poi ti dice cosa fare per smettere di fumare e per scrivere canzoni migliori? È questo il processo?

E.V. Sai, voglio limitarmi ad affrontare la cosa in modo aperto. E credo di essere piuttosto malleabile. Penso che mi si possa tranquillamente parlare di fumo o di scrittura. So solo che voglio smettere di fumare. Sai, è come andare a fare delle lunghe escursioni e arrivare in vetta a una montagna, e ritrovarsi a guardare qualcosa di bello, qualche paesaggio immenso, respirando l’aria più pulita del pianeta. E dopo mi accendo una sigaretta e dico: “Ahh, che bel momento per fumare!” È qualcosa di cattivo che prende il sopravvento, e io voglio poterlo controllare.

C.B. Quando suoni senti di essere un fumatore per quanto riguarda il cantare o il muoverti per il palco?

E.V. No. Questo è il problema. Non ha intaccato nessuna di queste cose. Fumo da quando Kurt è morto comunque.

C.B. È stato allora che hai iniziato a fumare?

E.V. Quell’evento mi ha creato alcune nevrosi che dovevo calmare in qualche modo.

C.B. La tua band e la tua comunità musicale hanno sofferto numerose perdite nel corso degli anni, dagli eventi di Roskilde alla morte di amici. Non credi che sia un lavoro pericoloso fare il musicista? Cosa ti aiuta ad andare avanti?

E.V. Insieme a quelli che non ci sono più, includo nella stessa lista di perdite anche le relazioni. È triste ed è dura. Ma è così anche per i rappresentanti di commercio che devono viaggiare, e per quelli nell’esercito. È così per la maggior parte della gente, credo. È un lavoro pericoloso anche solo cercare di vivere. Non c’è molto da fare se non andare avanti. Tutto è in un costante stato di cambiamento, quindi la sfida è accettarlo e andare avanti con questa consapevolezza. C’è una frase di Howard Zinn che riassume il concetto: “Non puoi restare neutrale su un treno in corsa”.

II. “Non capisco come si possa dire ad un qualsiasi artista che non vuoi che lui metta in gioco le sue idee personali.”

C.B. Non per buttarla subito in politica, ma volevo chiederti del vostro ultimo tour. A Denver, un commento su Bush ha scatenato una risposta piuttosto negativa tra qualcuno del pubblico. [Durante la performance della canzone Bu$hleaguer, Vedder che indossava una maschera di George W.Bush, se l’è tolta e l’ha messa in cima all’asta del microfono. Poi ha continuato a cantare la canzone rivolto verso la maschera. Dopodichè, si è preso un momento per condividere col pubblico i suoi sentimenti sul nostro presidente]. Quanto è stato difficile per te dare voce al dissenso?

E.V. Beh, veramente quello era proprio il nostro tour, no? Voi c’eravate—

C.B. Sì, ero con te e l’ho sentito. Non avete un piccolo pubblico, e quando esprimi un dissenso o un’opinione, la ascoltano più di 10.000 persone.

E.V. Beh, dovremmo per prima cosa chiarire che quella prima notte a Denver, quando è successo, noi non abbiamo avvertito nulla di negativo. E credo di aver parlato con voi il giorno dopo, quando siamo rimasti piuttosto sconvolti da alcune recensioni che arrivavano. “Pubblico se ne va in risposta a commenti anti-Bush durante uno show dei Pearl Jam”.
E quando ve l’ho fatto vedere e ne abbiamo parlato, avete detto che anche voi non vi eravate accorte di nulla.

C.B. No. Se si vuole dire che il pubblico voleva andarsene o che la cosa ha intaccato il loro amore per voi o per la musica, questo è assolutamente falso. Penso che quando tu parli di politica cali un certo silenzio tra il pubblico perché vogliono davvero sentire quello che hai da dire. E credo che a Denver qualcuno forse non fosse d’accordo con te, ma non penso proprio che se ne siano andati per questo.

E.V. Beh, è quello che ho pensato anch’io. Penso sia stato molto interessante osservare l’effetto che delle recensioni improprie o irresponsabili hanno sulla percezione delle persone. Questa cosa ha scatenato le radio della destra conservatrice e le telescriventi della CNN e di FOX News. Questa è stata la parte più spaventosa. A quel punto abbiamo dovuto parlare tra di noi, come band. Sai, un paio di noi hanno mogli, case e bambini e vivono in una zona normale che non è particolarmente sicura. C’era tutto questa onda di negatività montata alle nostre spalle e sentivamo storie tremende sulle Dixie Chicks a cui avevano vandalizzato casa o minacciato i nonni all’ospizio.

C.B. Ci sono molti modi per deviare la verità. E adesso, guardando in retrospettiva, sapendo che le armi di distruzione di massa non esistevano, sembra che i media siano in parte corresponsabili per non aver mai fatto le giuste domande a questa amministrazione, per non averli mai sfidati. Credo che gli occhi della gente si stiano aprendo e vedano molte di queste cose adesso.

E.V. Mi ricordo quando tutto stava accadendo, proprio durante i primi show del nostro tour. Durante il soundcheck voi stavate provando “Fortunate Son” e io e Jeff stavamo seduti dietro e sorridevamo, perchè l’avevamo già suonata in Australia. Poi a un certo punto abbiamo iniziato a suonarla insieme. E alla fine sembrava vera solidarietà, non si sa bene per cosa. Avevamo le nostre convinzioni, e non importava per cosa il pubblico avesse pagato per vedere, o ciò che fossero disposti ad accettare, importava solo suonare quella canzone e stare in piedi alla fine di Rockin’ in the free world e stringere la mano di Corin (Tucker). È stato anche emozionante, in quanto rappresentanti dei generi maschile e femminile, stare lì a fare i nostri segni di pace, fissando la folla alla fine di questa canzone, alla fine della serata. La cosa strana è che all’epoca c’era da avere paura e pareva un gesto davvero audace da fare. Quello che è interessante è che ora, a un anno di distanza, non rappresenterebbe certo un problema.

C.B. Sì, sono d’accordo. Ovviamente con un pubblico numeroso come il vostro non è possibile che tutti siano d’accordo con te e con le tue idee politiche. Ti dà mai fastidio? Perché per altre band può essere una cosa molto alienante.

E.V. Sì, credo che la cosa più frustrante sia non sapere quanti sono d’accordo e quanti no. Qualche volta ricevo delle lettere. Mi piace vedere le due facce di tutto, e magari ricevo cose terribili come “Chiudi quella cazzo di bocca e suona la tua chitarra”.

C.B. Vero.

E.V. Ed è una cosa che proprio non capisco. È come se Kurt Vonnegut, o qualche altra persona la cui arte è da me molto apprezzata, esprimesse i suoi punti di vista e, indipendentemente che io sia d’accordo o meno, credo che sarei comunque curioso di sentire quello che ha da dire e di imparare da lui. Ho tutti i diritti per non essere d’accordo. Ma dire soltanto “Non dovrebbe farlo” oppure “Questo mi impedirà di leggere i suoi libri”, beh, su questo non sono per niente d’accordo. Non capisco come si possa dire a un qualsiasi artista che non vuoi che metta in gioco le sue idee personali. Tutte le volte che penso al rock ‘n’ roll come un’arte, so che Mark Arm dei Mudhoney sta scalciando da qualche parte. Ed è un bene, perché lui è un buon barometro. Penso solo che sia qualcosa che ha sempre fatto parte delle persone delle quali apprezzo da sempre la musica e il lavoro. Io quindi sono dalla parte opposta. Voglio sentire quel genere di cose, specialmente se hanno lavorato duro per prepararsi sull’argomento.

 

III. “Quest’amministrazione ha reso il nostro paese responsabile agli occhi del mondo.

C.B. Pensi che la musica abbia ancora la capacità di essere politica, di diffondere movimenti politici, o di radunare la gente?

E.V. Sì, sai, ho parlato con qualcuno che faceva musica negli anni ’60, e loro avevano la percezione che anche allora quello che dicevano non servisse a niente, e che alla fine siano stati solo i sacchi con i corpi dei soldati provenienti dal Vietnam a farmare la guerra. E Walter Cronkite, che al tempo era una specie di rispettabile nonno adottivo per la nostra nazione, a un certo punto disse che quello che stavamo facendo era sbagliato. Questo ha avuto più influenza anche degli stessi movimenti pacifisti.
Non so se essere d’accordo o meno, ma credo che sia una cosa interessante.
Sono sempre sconvolto dal numero dei votanti, e dal fatto che Bush sia stato eletto da meno di un quarto degli aventi diritto al voto. È una percentuale molto piccola, quella delle persone che hanno scelto di votarlo e di dargli l’incarico di presidente. E, a parte questo, che cosa pensavano quelle persone? Io non so se quella gente è così ignorante da pensare che Bush Jr. — un viziatello da college, che ha passato la vita a fare affari, tutti fallimentari, che è stato salvato dopo ogni fallimento, e che ha fatto affari grazie al suo cognome — in che modo queste persone pensavano di poterlo ritenere un lavoratore, o qualcuno con cui sedersi a bere una birra? Non lo capisco. Se pensi a tutta la gente che non va a votare… forse il potere della musica potrebbe cambiare le cose. Non so cosa potrebbe spingere le persone a votare.

C.B. Nell’attuale stato dell’industria musicale, ci sono alcune band punk e indie che non sono mainstream e che non passano su MTV. Per la maggior parte, queste band non sono coinvolte in politica.

E.V. Credo che stia prendendo piede una cosa, si chiama punkvoter.com, e insieme a Move-on.org è una cosa piuttosto interessante. Del genere Rock Against Bush. Spiegano alle persone cosa possono fare concretamente.

C.B. È come Bands Against Bush?

E.V. Sì, una specie. Quello che è chiaro è che stanno facendo veramente qualcosa di concreto. Sai, devi quasi arrivare a farlo, a dire “Abbiamo davvero intenzione di parlare di questa cosa stasera, in un modo o nell’altro.”

C.B. Ciò nonostante, penso che, in parte, forse sentano di predicare al vento, quando si trovano davanti a un bel po’ di persone che ovviamente sono contro Bush. Bisogna riuscire a non farlo passare per qualcosa di scontato da includere nel tuo set ovunque suoni. Che è un po’ come dire qualcosa ogni tanto ai concerti e rendersi conto che “Ok, tutti applaudono, beh è stato facile.”

E.V. Sì. Bisogna mettere la cosa in un contesto per cui non stai necessariamente predicando al vento. Ma credo che anche se stai predicando al vento, come hai detto tu, bisogna assicurasi che la gente che vuole mandare a casa Bush vada davvero a votare e non si limiti ad applaudire al tuo show.

C.B. Perché secondo te tante persone non hanno votato, specialmente quelle che sembrano volere un cambiamento?

EV:  Beh, oggi sono andato al negozio di ferramenta. Ho caricato un paio di cose nel retro del mio furgoncino e ho guidato fino casa, che non è molto lontana. Poi sono sceso e sono andato a tirarle fuori, e non c’erano più. Mancavano. Questi pali di alluminio erano volati fuori dal retro del mio furgone. Così ho rifatto tutta la strada cercando nei canali di scolo, per vedere se riuscivo a trovare questi due pali. Non li ho trovati, e li ho dovuti ricomprare. Mentre stavo tornando indietro, con un po’ più di cautela questa volta, ho iniziato a pensare al voto dei giovani. E mi ha fatto pensare, perché è di questo che si tratta; questa guida incauta è come la gente che non vota. Penso che i giovani si limitino a pensare che c’è qualcuno che si occupa delle cose. Forse il voto di chi va al college è diverso da quello dei giovani disoccupati, e io non so nemmeno se si tratti di indifferenza, ma c’è questa idea per cui sono gli adulti a prendersi carico delle cose, o che si tratta di cose che non capiscono.

In gran parte non è difficile da capire, soprattutto con l’avvento di Internet. Girano un sacco di informazioni, e ovviamente sono quelle che non otterrai semplicemente guardando i normali notiziari. E puoi anche non prestarci attenzione, ma sono lì, a portata di mano. Ci sono persone che conversano in tutto il paese, e c’è l’accesso a queste informazioni. Ed è come se i giovani avessero il futuro del paese nel retro del loro furgone, e stessero guidando piuttosto incautamente, pensando che andrà tutto bene. Poi, quando finalmente si fermano a guardare nel retro del furgone, lì non c’è più niente, e se tornano indietro a recuperarlo, potrebbero anche non essere in grado di sostituirlo. Credo che questo sia un momento davvero importante per partecipare al processo democratico.

Davvero, è arrivato il momento di essere partecipi. Questo è uno di quei momenti. Questo è uno di quei momenti, eppure non mi sembra che ci stiamo necessariamente arrivando.

CB: Sono d’accordo. Mi chiedo, che cosa sta aspettando la gente? Un problema che vedo è che, nonostante abbiamo le informazioni a portata di mano grazie a Internet, sembra quasi che se ci sia troppa informazione. Notizie su Britney Spears che si sposa hanno più risalto del discorso sullo Stato dell’Unione. Sembra che avere così tante informazioni disponibili in ogni momento sia un’arma a doppio taglio. Ora le persone possono trascurare quello su cui magari dovrebbero concentrarsi.

EV: Come se bastasse andare su MoveOn.org e dire, “Oh, qualcun altro se ne sta occupando.” Perché sembra che ci siano molti indicatori del fatto che un sacco di gente si sta ritrovando o sta mettendo in atto forme di protesta in questa sorta di mondo virtuale. E so che ci sono controparti nel mondo reale, ma mi chiedo se non ci sia qualche sorta di passività che si crea per cui ci limitiamo a guardare MoveOn e a pensare: “Oh, bene, sta accadendo da qualche parte,” capisci?

CB: Come pensi che sia possibile rimuovere lo scollamento tra coinvolgimento virtuale e coinvolgimento nella vita reale? Cosa vorresti che accadesse?

EV: L’unica cosa che penso è che votare per mandare via l’amministrazione Bush sarebbe una cosa enorme. Sarebbe un messaggio enorme anche a livello internazionale. Voglio dire, se vuoi il controllo di qualcosa, devi trattarla con rispetto. Credo che in questo momento, questa amministrazione abbia reso il nostro paese responsabile agli occhi del mondo.

IV. “Se mai c’è stato un esame, è stato l’aver affrontato la lotta contro Ticketmaster.”

C.B. Penso che alcuni artisti non se la sentano di prendere una posizione politica per paura di essere classificati come attori politicizzati o musicisti politicizzati. Come se in qualche modo la tua arte non abbia più una dimensione propria o multisfaccettata. Sembra che per questo motivo alcuni abbiano paura di intraprendere la strada dell’attivismo politico, specialmente sapendo come i media iniziano a dipingerti.

E.V. Questo è stato parte integrante della conversazione che ho avuto con la band su quello che ci stava accadendo all’epoca. Perché dopo aver suonato nella Bible Belt, siamo andati su in New Jersey e abbiamo pensato “Ok, ora possiamo anche parlare un po’ più liberamente.”

C.B. Esatto. Oppure suonare Bu$hleaguer di nuovo.

E.V. E quando l’abbiamo fatto, si è scatenata quella che credo sia la peggior reazione che abbiamo mai avuto.

C.B. Ah sì, in quello show a Hershey in Pennsylvania.

E.V. Credo che dopo quello show – in cui un c’era un imponente gruppo di persone che cantava in coro “U-S-A” – penso che ci sia stato un po’ di distacco alla fine della canzone su Bush allora. A quel punto, stavamo parlando del fatto di essere davvero coinvolti, e del fatto di condividere le stesse idee. Ma poi ci siamo ricordati di come abbiamo affrontato un tour dopo la battaglia contro Ticktmaster e di come fosse diventato una specie di “Ticketmaster Tour”. Tutto ciò di cui la gente parlava e si leggeva nelle recensioni era la lotta contro Ticketmaster, e non solo l’abbiamo affrontata, ma l’abbiamo anche persa. Perché dovevano esserci un vincitore e un vinto. Era come se quella cosa ci avesse allontanati dalla musica. E ci sembrava, egoisticamente, che stessimo suonando bene e lavorando duro, ma che non si trattasse più di quello. Si trattava di qualcos’altro. 

V. “Sono sempre stato grato di essere stato accettato.”

C.B. Per quanti anni, da quando avete iniziato, avete rilasciato interviste ai media?

E.V. Beh, penso che sia cambiato tutto ai tempi del nostro secondo disco. Penso che avessimo già tagliato i ponti con i media, ma abbiamo comunque fatto qualcosa. Fu allora che le cose cominciarono a sembrare davvero strane, ed è lì che capisci come funziona il processo, che all’inizio non è stato affatto facilealmeno per quanto ci riguarda. C’era questa sensazione di sentirsi cooptati, di essere solo un prodotto. Ti trovavi sulla copertina di ‘The All-Grunge Special Issue’ o roba del genere, con poster allegati e tutto il resto. E pensavi “Chi è questa gente? Li conosco?” e, non che la cosa mi interessasse, ma… “Veniamo almeno pagati per questo?”. La cosa davvero spaventosa per me era la sensazione di sentirmi sovraesposto.

C.B. E forse non sai più neanche chi sei. Ti capita mai di sfogliare un giornale, vedere la tua faccia e pensare “Ma questo non sono io”?

E.V. Beh, allora era così. Oppure andare ad una festa di Halloween e trovare qualcuno che ha tagliato il poster gigante per farci una maschera.

(ridono)

C.B. È successo?

E.V. Sì sì. Pensava che sarebbe stato divertente. Ma io ero troppo sensibile all’epoca. Cioè, normalmente sarebbe stato divertente, ma non in quelle circostanze. Era difficile mantenere del senso dell’umorismo a riguardo. Credo che ci sia una frase appropriata in ‘Morte di un commesso viaggiatore’: “Non puoi mangiare l’arancia e lasciarmi la buccia”.
E c’erano anche delle discussioni ideologiche che erano nate con i canali musicali o cose del genere, per cui loro avevano dei progetti e facevano le cose in una certa maniera, mentre io non volevo farle in quel modo. Così se avevi l’intenzione di dire no a qualcuno, alla fine ti trovavi costretto a dire di no a tutti.

C.B. Avevate idea di che musica stavate suonando prima che venisse etichettata come grunge? Credo che ora ci siano così tanti generi di musica: ci sono molti più compartimenti. E allora questa etichetta “grunge” è stata data al suono delle band di Seattle. Com’è ritrovarsi a suonare un genere di musica classificato da altri, invece di dare un nome alla propria musica da soli?

E.V. Mi sentivo comunque al riparo, perché avevamo il nostro linguaggio musicale e funzionava bene. Stone e Jeff suonavano insieme già da tempo, e ci stavamo integrando in questa nuova relazione, e lo stavamo facendo in un modo secondo me diverso. Era come se fosse davvero il nostro modo. E prima di venire messi insieme a tutte le altre band per la provenineza da uno stesso punto geografico, ascoltavo gli Who e leggevo articoli su di loro e sugli inizi della scena mod. Questo quando avevo 15 anni e pensavo “Oddio, se solo potessi farne parte!”. Non sarebbe stato grandioso essere in una band che aveva la possibilità di crescere in un tale ambiente? A quel tempo ero a San Diego, e c’era qualcosa che si stava muovendo ma non si trattava di una comunità estesa. Veniva tutto assorbito da Los Angeles. Una comunità di gente così tranquilla non si sarebbe sprecata a un concerto rock. Così sono finito in qualche modo in una situazione in cui c’era una comunità, e dove c’era un po’ di movimento, musicale comunque.
C’era qualche band davvero forte, e quando l’attenzione era fiorente, era fantastico.
E visto che sono sempre stato considerato un trapiantato, da quando ho iniziato a essere accettato, sono sempre stato orgoglioso di venire da qui. E amo ancora Seattle, questa zona e queste persone. Amo davvero Seattle e il Northwest. Sono sempre stato grato di essere stato accettato e ne vado molto orgoglioso.
Mi ricordo che a un certo punto ho pensato “Dio, ok.” Una volta leggevo articoli sugli Who e pensavo spesso a questa e a quell’era musicale, e mi sono ritrovato a pensare “Wow, ci sono dentro adesso — questo è molto eccitante”.


C.B. Allora ti sei spostato a Seattle prima di Ten?

E.V. Sì, credo fosse settembre/ottobre, nel tardo 1990 comunque.
I Mother Love Bone stavano per uscire con il loro primo vero disco, quando persero Andy. Se andò a causa dell’eroina. Credo che fossero pronti per andare avanti con qualcos’altro. La perdita di Andy aveva dato loro molta energia. Avevano una band e da un giorno all’altro si sono ritrovati senza, così avevano bisogno di ricominciare da capo con un’altra.

C.B. Giusto. Ti hanno chiamato per un’audizione oppure eravate amici e tu hai detto “canto io”?

E.V. Esatto!

(ridono)

E.V. Avevo mandato loro un nastro tramite il mio amico Jack Irons. Loro gli avevano detto “Se conosci qualche cantante…”. Era solo un nastro casuale che avevo mandato a Seattle. Loro avevano fatto un po’ di pezzi strumentali, credo incisi con Matt Cameron. Penso che più di metà di quelli siano finiti in “Temple of the Dog” e quelli scritti da me nei nostri dischi.

C.B. Qual è la prima canzone che hai scritto per i Pearl Jam della quale ti sei sentito molto orgoglioso?

E.V. Penso la prima sul quel nastro, c’erano tre canzoni su quel nastro.
Alive era una di quelle. Black anche e pure Once. Sono uguali ad allora. E sono piuttosto belle. Abbiamo registrato molto, abbiamo provato per una settimana e registrato tutto l’ultimo giorno.
Credo di essere tornato a casa con un nastro di undici canzoni, e quasi tutte sono finite su Ten. E di nuovo, sembrava che molte delle cose a cui avevo preso parte prima fossero un po’ derivative o troppo derivative, mentre questa invece aveva una sua peculiarità. 

VI. “Ho iniziato con i Jackson Five… sono cresciuto in una specie di casa famiglia.”

C.B. Io e te abbiamo giocato a scarabeo un paio di volte durante il tour, e ho notato che sei una delle persone meno competitive con le quali abbia mai giocato. Forse sarà stato solo il vino, ma ci sono aree in cui sei competitivo?

E.V. Certamente non in campo musicale. La competizione fa bene, se presa in dosi giuste. Quando qualcuno si fa troppo sfacciato nella vittoria, può rovinare l’aspetto positivo. Allora questo qualcuno deve essere distrutto. (sorride). Giustizia deve essere fatta. Il problema è che qualche volta tocca a me.

C.B. Vedi mai certe band promettenti che vengono elogiate e vorresti tornare indietro?

E.V. No, per niente. Se è una band che mi piace spero solo che sopravviva. E ammetto che se è musica scadente, spero che non ce la facciano e che spariscano. Semplicemente perché ci sono troppe buone band da ascoltare al loro posto.


C.B. Suonavi in una band alle superiori? Quand’è stata la prima volta che hai suonato in pubblico?

E.V. Mi ricordo qualche specie di festa di quartiere a San Diego. Avevo un paio di piccole band, eravamo 5 ragazzi che lavorano tutti in drogheria. Non era un granché comunque perché ad uno piacevano i Cars, a un altro gli Eagles e a me gli Who. Oddio…

C.B. Non si può fare Eagles-Cars-Who!

E.V. No, era terribile. Era proprio terribile.

C.B. Così il batterista cantava, e avevate un tastieriesta?

E.V. Sì, a cui piacevano gli Styx.

C.B. Sul serio?

E.V. Davvero. Ma bisogna viverle queste situazioni.

C.B. Vero. Ti ricordi la prima volta che hai ascoltato la tua voce registrata?

E.V. Beh, probabilmente quando ero piccolo. Mi piacevano molto i registratori e cose così. Così scrivevo canzoni, e mi ricordo che le scrivevo anche quando ero molto piccolo.
Scrivevo delle frasi con delle frecce sopra, 2 frecce se dovevo andare molto in alto. Questo quando avevo 7 o 8 anni. Mio padre morì di sclerosi multipla, e io non l’ho consciuto se non dopo la sua morte. Credo che fosse un musicista, magari quindi si tratta di genetica, era un cantante di piano bar.

C.B. Davvero?

E.V. Sì, suonava con la tazza appoggiata sul piano. Cose del genere.

C.B. Hai mai ascoltato qualcosa registrato da lui?

E.V. Sì, ho un nastro. C’è una canzone in stile Gordon Lightfoot. Aveva lo stesso tipo di voce di Gordon Lightfoot. Poi c’è n’è un’altra che ha scritto in cui c’è il mio nome. È bello sentirlo.

C.B. Quando sei nato era lui c’era? O i tuoi genitori avevano divorziato?

E.V. Credo che ci fosse. Per un paio di anni, però non ricordo. Poi si sono separati e mia madre si è risposata. E dopo lui non è più stato nominato.

C.B. È una cosa piuttosto intensa…

E.V. Ed è anche stato interessante. Perchè io avevo tre fratelli minori e i nostri genitori non volevano che ci sentissimo diversi. E infatti ha funzionato: intendo dire, eravamo molto vicini.

C.B. Hai mai suonato con i tuoi fratelli in qualche riunione di famiglia?

E.V. Sì, abbiamo suonato una canzone a mia madre per il suo sessantesimo compleanno. Abbiamo suonato “Long May You Run” e “Let My Love Open the Door”. È stato molto bello.

C.B. Adoro quella canzone di Pete Townshend. Che tipo di musica ascoltavi mentre crescevi? Chi ti ha ispirato?

E.V. Beh, ho iniziato con i Jackson Five in una specie di casa famiglia in cui c’erano fratelli neri e sorelle irlandesi, e avevamo uno scantinato. Erano i tardi anni ’60 e i primi ’70 e giravano tanti dischi della Motown. Ero a Chicago. Sly and the Family Stone, c’erano tante cose della Motown. Anche Stevie Wonder. E poi c’erano i Jackson Five con cui potevo identificarmi perché erano dei bambini. Così da lì mi sono spostato alle musiche di The Last Waltz. C’era Bob Dylan, Neil Young, Ron Wood, Muddy Waters e Van Morrison. Questa gente si sono impiantati nella mia testa per quanto erano grandiosi. E poi rubavo i dischi a mio zio, e lui me lo lasciava fare. Si limitava a choamare mia madre e a dirle: “È li che si trova il disco?”. E lei diceva: “Sì”. Era bello quando avevo 7-8 anni, potevo ascoltare Woodstock e mettere su Country Joe e i Fish con tutti i miei amici.

C.B. Per caso eri inserito nella scena punk californiana? Quando parli di feste di quartiere, è indicativo della tua scena? Oppure eri tra gli skater o i surfisti?

E.V. Sai, non c’era nessuna scena. Ero solo in una specie di periferia, e le onde non sono arrivate fin li. E un’altra cosa che ha influito è che i miei genitori si sono separati quando ero adolescente e dovevo lavorare. Non potevo avere un taglio alla moicana. C’era un ragazzo nella mia scuola che era il genere di ragazzo ribelle-punk-rock, e lui aveva quel look. L’unica cosa che potevo fare era indossare la mia camicia alla moda o la mia maglietta dei PIL. Ma dovevo lavorare alla drogheria e fare lavori edili e via dicendo. Sì, avevo l’età giusta per questo.
Perfino Thurston Moore mi ha chiesto la stessa cosa. Ha detto: “Dio, ma eri pronto per quello”. E io glio ho detto: “Sì, me lo sono perso”.

C.B. Succedeva intorno a te.

E.V. Sai, io avrei voluto farne parte. Sarebbe stato grandioso e probabilmente mi avrebbe cambiato musicalmente, un po’. La cosa più eccitante da fare quando ero là era andare a vedere il Dance Craze di mezzanotte. Mi fa venire in mente quell’orda di ragazzini, che probabilmente ora comprerebbero la loro musica via internet. Credo che Jeff Ament fosse nelle stesse condizioni, lui ordinava musica dai cataloghi. È cresciuto in una città davvero piccola. Devi arrivarci da solo. Non esisteva praticamente nessuna scena e ti sentivi un po’ ostracizzato, o le persone non ti capivano. Voglio dire, tutti gli altri ascoltavano, che ne so, i Journey.

VII. “È grazie alla fiducia del pubblico che possiamo andare avanti.”

C.B. È un tentativo di rendere la musica piu accessibile l’idea che c’è dietro a tutti i bootleg che avete fatto uscire? Oppure è più una risposta per contenere l’ammontare dei bootlegs illegali o dei dowload?

E.V. Sì, un po’ entrambe le cose. Prima ho detto che mi interessavo molto ai registratori. Lavoravo in una drogheria, ci lavoravo quando è uscito il primo Walkman. Lo comprai con la mia paga. Poi uscì il Walkman che registrava, lo portavo ai concerti e registravo per me. Non ho mai fatto copie o altro. Mi piaceva tantissimo. Mi piaceva l’idea di avere la possibilità di rivivere l’esperienza. Si sprigiona tantissima energia dai concerti, specialmente da quelli buoni, davvero toccanti. E quell’energia, non importa quanto lo show sia stato grandioso, si disperde nel giro di due settimane o di un mese. E questo era il mio modo per ritornare in quel grandioso luogo mentale. La prima volta che ho visto gli Who è stato nel 1980. Avevo circa 15 anni. Per la prima metà dello show, non ero in grado di accettare il fatto che quei 4 ragazzi fossero lì, nel mio stesso posto, a San Diego. A quel punto, per il modo in cui concepivo la geografia e per il modo in cui ero stato educato, ero spaventato dal resto del mondo. Non avrei mai pensato di viaggiare. Non faceva parte della mia educazione. Londra poteva benissimo essere Marte, capisci?

C.B. Sì.

E.V. Ed è a quel punto che sono arrivati gli dei del rock a benedirci. Davvero, l’eccitazione di vederli per la prima volta. Fare un buon nastro di uno show non è un’impresa facile. Inevitabilmente c’è qualcuno che ti urla di fianco o che discute con la fidanzata vicino a te. Anche la gente che è venuta con te continua a parlare nel microfono. E tu pensi “Oddio, so che questo è solo uno show, ma lo ascolterò almeno 350 volte!”.

C.B. Già, ed è interessante pensare alla gente che si porta dietro un equipaggio per registrare. Posso capire il ragionamento che c’è dietro, ma il suono è orribile. Mi ricordo quando ero adolescente, lo facevo anch’io a Seattle, registravo i concerti e li ascoltavo in continuazione. Non erano per niente fedeli, solo elettricità statica.

E.V. Sì, cioè dovevi proprio ascoltarli in cuffia e chiudere gli occhi. Le tue orecchie dovevano fare il lavoro e allore ne potevi ricavare qualcosa.

C.B. Si tratta più di catturare l’esperienza e avere una sorta di documento che testimonia che tu eri là. Dopo che siamo stati in tour insieme ho preso qualche vostro bootleg. È eccitante anche solo sentire lo show con più sfumature, cogliere qualcosa che non avevo percepito la prima volta, o perfino avere le tue battute su nastro. E credo che per i vostri fan sia una cosa che li fa sentire speciali. Hanno la possibilità di rivivere qualunque show loro vogliano, che ci siano stati o no.
Sembra una delle tante cose che fate per avere una connessione più diretta con i fan, cosa che molte altre band non fanno. A me sembra che non aver ripreso a fare interviste vi abbia avvicinati ai fan. C’era una connessione che poteva esserci solo tra voi e loro. Non avrebbero letto niente di voi e neanche un’intervista. Non avrebbero visto un video su MTV. Improvvisamente, l’esperienza diventava solo live, unica.

E.V. Beh, abbiamo sicuramente ridotto il nostro pubblico di un bel po’, specialmente il pubblico che compra i dischi, fino al punto in cui siamo riusciti in un perfetto atto di sabotaggio.

C.B. Ti ricordi quando hai deciso, come dicevi prima, di dire no ai media e a MTV? Ti hanno criticato queste istituzioni? E sei mai stato criticato dalla tua etichetta e dal tuo manager?

E.V. Credo che quello che succede è che quando qualcosa ha successo, la gente se ne prende il merito in modi in cui poi il merito ti viene tolto. Non credo nemmeno si tratti di ego, ma stai pensando e stai dicendo che eravamo un prodotto di successo. E questo decisamente va contro a ciò che vediamo quando suoniamo e riceviamo reazioni da un pubblico come non credo se ne ricevano normalmente. Credo che qualcosa di davvero speciale stesse accedendo. Quindi era un insulto, sai ovviamente c’era di mezzo il marketing e anche l’esposizione di MTV e tutto il resto. Ma una volta che ci sei dentro, non ha niente a che vedere con te. Vuoi il potere per essere nella musica, e il merito di raggiungere la musica e la tua connessione con la gente che va agli show. Vuoi lottare e dici “Ok, non siamo solo una saponetta con una confezione creata da voi che ora vende copie e vi sta facendo guadagnare un casino di soldi.” Capisci quello che dico? C’è molto altro, e questo è il punto, non credo che lo capiscano, o che lo capissero o che dicessero di capirlo.

C.B. In qualche modo avete dimostrato che questo era vero. Il vostro successo e la connessione dei fan con la vostra musica non sono dipesi dai media. Avete mantenuto – nonostante non facciate video, i vostri pezzi non passino sulle radio mainstream e non rilasciate una pioggia di interviste in concomitanza con l’uscita degli album – un seguito totalmente devoto. Sembra che in un certo senso abbiate imboccato un modo di pensare la musica, un’ideologia che i fan condividono con voi. Andando ai vostri concerti e vedendo i vostri fan ho capito che a nessuno di loro importa di MTV. Fanno sembrare tutte quelle cose futili.

E.V. È merito loro se sono rimasti con noi. Non avremmo potuto fare nulla senza di loro. E credo sia già successo prima. Forse anche ai Monkees. Sai, i Monkees volevano fare il loro disco e volevano suonare le loro canzoni e nessuno ha mai sentito quel disco. Penso che diverse band l’abbiano fatto o abbiano provato a farlo prima, ma credo che noi siamo stati solo fortunati.

C.B. Pensi che ne sia valsa la pena? Hai barattato un bel gruzzolo di soldi e la celebrità in senso più ampio, per ottenere il controllo sulla tua arte.

E.V. Beh, la cosa positiva dei soldi è che puoi farci cose buone. Credo che ci sia ancora qualcosa da fare e dobbiamo guadagnare più soldi per lottare contro la pena di morte, per esempio, pensa al caso di West Memphis Three; possiamo trovare un modo per fare qualcosa. È più difficile che firmare un assegno, ma si può ancora provare a fare qualcosa.