I Pearl Jam rivisitano i loro primi giorni 

By Brian Hiatt
Rolling Stone | 2 aprile 2009
Traduzione a cura di As_It_Seems

Stone Gossard proprio non riesce a ricordare il nome di quel tizio – solo che per poco non diventò il cantante dei Pearl Jam. “Tyrone? Ian? Liam?” dice, frugando in un frigorifero in un appartamento all’ultimo piano del quartier generale della band a Seattle. Al piano di sotto c’è il merchandise dei PJ e le operazioni del fan-club, insieme al loro spazio per le prove, al museo di qualità con le memorabilia della band e ad una gabbia per il baseball indoor. Il bassista Jeff Ament, seduto ad un tavolo da cucina, non sta avendo neanche lui molta fortuna con la sua memoria: “Era un ragazzo alto, pelle e ossa,” dice.

Con la pubblicazione, il 24 marzo, della versione remixata e piena di bonus, del primo album dei Pearl Jam, Ten, il gruppo ha voglia di guardare indietro – e al momento, Gossard, Ament e il chitarrista Mike McCready stanno cercando di far riaffiorare i dettagli riguardanti uno dei pochi frontman che avevano preso in considerazione prima di Eddie Vedder. Ament è sicuro di una cosa: “Se avessimo scelto quel ragazzo, adesso anziché stare qui seduti in un appartamento sopra al nostro quartier generale, questo sarebbe stato l’appartamento in cui noi tre avremmo abitato,” dice, facendo ridere i suoi compagni della band. “Ti staremmo dando 2.000 dollari sotto il tavolo per fare questa intervista.”

Dalla sua pubblicazione nell’Agosto del 1991, Ten ha venduto 9,6 milioni di copie, secondo Nielsen Sound Scan, più di Nevermind dei Nirvana. E mentre i compagni di Vedder sanno che niente di tutto ciò sarebbe accaduto senza di lui, il cantante si sente ugualmente fortunato ad essere stato ingaggiato – specialmente dopo la recente esperienza di aver ascoltato la cassetta demo che ha dato il via a tutto. “C’è una parte lì dentro così isterica come nessuna altra cosa che io abbia mai ascoltato,” dice Vedder, “Non ridevo così tanto da anni.” Si riferisce alla sua prima versione di “Once”, che è la cosa più goffa che abbia mai registrato – l’ampio ritornello è intatto, ma il resto vacilla tra bizzarri segmenti recitati e intermezzi funk in falsetto. “Sono fortunato che loro siano stati capaci di vedere al di là di quello e che mi abbiano dato il lavoro.”

Ma il resto delle tre canzoni della cassetta – una versione della cassetta è inclusa in una edizione superdeluxe della ristampa – arrivano in maniera suggestiva vicine al sound di Ten. Tutto è iniziato con i riff scritti da Gossard, che era determinato a ricominciare dopo la morte di Andrew Wood, frontman della band di Gossard e Ament, i Mother Love Bone. Affascinato dai Jane’s Addiction influenzati dai Led Zep, Gossard aveva un’idea molto precisa della musica che voleva fare. “Mi piace la propulsione, mi piace il ritmo” dice. “Volevo che le persone saltassero su e giù. Può essere una specie di ‘Achilles Last Stand’ o qualsiasi cosa che si muova verso quella heavy, funky, grooving, caotica roba.”

Per registrare il demo, Gossard ingaggiò il miglior batterista della città: Matt Cameron dei Soundgarden – che non avrebbe più suonato con i Pearl Jam finché non si unì a loro nel 1998. “Avevo la sensazione che Stone avesse un quadro molto chiaro di quello che sarebbe stata questa nuova proposta musicale” dice Cameron.

Jack Irons, ex dei Red Hot Chili Pepper, parlò a Gossard e Ament di un cantante che viveva a San Diego, di nome Eddie Vedder, che lavorava come guardia di sicurezza in un distributore di benzina. Gli spedirono il nastro, etichettato “Stone Gossard demos.” “Ho registrato le mie parti vocali in quattro o cinque ore” dice Vedder, che scrisse i testi e le melodie nella sua testa mentre faceva surf. “Ed ha cambiato le nostre vite in infiniti modi, ha cambiato tutto – è quasi terrificante sentirlo. Mi ha dato quella che è sicuramente la migliore vita che avrei mai potuto vivere – poter mantenere i miei figli, poter viaggiare. Sono le migliori cinque ore che io abbia mai speso.”

Con Vedder a bordo, insieme al batterista Dave Krusen, la band si convinse di avere qualcosa di speciale – soprattutto quando elaborarono canzoni come “Black” e “Even Flow”. “Qualcuno mi chiese chi mi ricordava questa band, e io ho risposto ‘U2′” dice Krusen. “Non che la musica suonasse come la loro – ma proprio il feeling nel suo insieme.”

Ma quando arrivò il momento di registrare Ten, la magia era a volte difficile da trovare. “Abbiamo suonato ‘Even Flow’ qualcosa come un centinaio di dannate volte” dice Ament, che scaraventava palloni da basket in giro per lo studio quando si sentiva frustrato. “Stavo per diventare dannatamente pazzo”. Vedder stava tentando di spingere la musica della band più vicina al punk – la canzone più indicativa della sua direzione futura è l’esplosione del power-chord di “Porch,” che scrisse da solo. “Quella era la mia prima possibilità di fare un vero disco ed io ero dannatamente concentrato” dice. “Ero in una città nuova, perciò quel pugno di canzoni sostituivano i miei amici e la mia famiglia.”

Ad un certo punto nella fase di mixaggio, qualcosa andò storto: le chitarre e la batteria galleggiavano dentro un riverbero digitale formato stadio che ora suona più anni ’80 che anni ’90. Non appena iniziarono a lavorare con il produttore Brendan O’Brien al loro secondo album, Vs., Ament iniziò a sollecitarlo a remixare Ten. L’anno scorso, finalmente, hanno convinto O’Brien a farlo, e i risultati sono impressionanti: le chitarre schioccano e mordono, la voce di Vedder è più grezza e più ricca di sfumature, e spiccano la vivacità di Krusen e le parti sincopate. “Krusen era un vero eroe” dice Vedder del batterista che lasciò la band subito dopo aver lavorato su Ten, per entrare in una clinica di riabilitazione per un problema di alcoolismo. “Stava avendo parecchi problemi, ma aveva qualcosa di davvero speciale”.

I membri dei Pearl Jam sono più duri con Ten della maggior parte dei loro fans. “Da un punto di vista musicale, sembra ancora in un certo senso non realizzato” dice Gossard. “Ma questo dimostra soltanto che non posso ascoltarlo”.

“Volevamo veramente riuscire a comprenderlo, sapendo che in qualche modo sarebbe migliorato” dice Vedder. “E non avremmo smesso di provarci”.