Live Report: Pearl Jam dal vivo a Venezia 2010

6 Luglio 2010 Pearl Jam Heineken Jammin’ Festival, Venezia, Italia

Gruppi presenti nella line up della giornata: Ben Harper & Relentless7, Skunk Anansie, Gossip, Gomez, Plastic Made Sofa

Ben Harper and Relentless7’s Set (solo le canzoni con Ed Vedder): Under Pressure (Queen)

Set List: Given To Fly, Interstellar Overdrive (Pink Floyd)/Corduroy, World Wide Suicide, The Fixer, Small Town, Breath, MFC, Even Flow, Present Tense, Do The Evolution, Unthought Known, Porch

Encore: Red Mosquito (w/Ben Harper), Just Breathe, State Of Love And Trust, Arms Aloft (Joe Strummer & The Mescaleros), Jeremy

Encore 2: Got Some, Once, Black, Public Image (Public Image Limited), Alive, Rockin’ In The Free World (Neil Young, w/Ben Harper & Relentless7 and Rob Machado)

 

Il gruppo di Seattle chiude alla grande l’edizione 2010 dell’Heineken Jammin’ Festival. Nell’ultima giornata applausi per Skunk Anansie e Ben Harper

http://corrieredelveneto.corriere.it/ di Francesco Verni

«È da tanto tempo che vogliamo suonare qui. Suoneremo per due ragioni : la prima che abbiamo molte canzoni da suonare, la seconda che mi il mio italiano fa schifo». Eddie Vedder legge in italiano questo messaggio. Ha davanti 50mila persone (alcuni dicono 60) per l’ultimo concerto dell’Heineken Jammin Festival 2010. Gente che aspettava i Pearl Jam dalla tromba d’aria del 2007. Gente che finalmente ha potuto calmare la propria sete di rock.

La giornata di martedì era iniziata nei migliori dei modi. Prima l’esibizione dei Gomez, breve ma perfetta, poi i Gossip di Beth Ditto (con tanto di ruzzolone dal palco e spettacolo continuato tra il pubblico), dopo un po’ di pioggia è toccato agli Skunk Anansie, con una Skin più rock che mai che tra hit e inediti si è anche lanciata più volte tra il pubblico. Prima dei Pearl Jam il concerto dell’amico Ben Harper assieme ai Relentless 7. Sul palco il chitarrista californiano sale con la maglietta della campagna «Io non me ne frego» realizzata dalla Cooperazione Internazionale per riportare in primo piano la lotta contro la povertà nel Sud del mondo. Poi tra slide e guitar e Gibson mette in fila cover dei Led Zeppelin e i suoi piccoli gioielli come “Diamond on the inside ”.

Il delirio si scatena quando sul palco sale Eddie Vedder e duetta con Harper in “Under pressure” dei Queen. Solo applausi per il chitarrista e la nuova band che ha chiuso con “Up to you now”.

Poi tocca ai Pearl Jam. Due ore di rock potentissimo, ispirato come non mai. “Ciao Venezia!” e l’inizio è per “Given to fly” il pubblico la sa come una preghiera imparata da bambini, e tra Vedder e Venezia si instaura un legame che non si spezza più. Passano “Curduroy”, “Wordwide suicide”, Eddie legge la lettera che si è scritto in italiano poi si continua con “The Fixer” dell’ultimo “Backspacer” (poi canterà anche “Unthought known”, “Just breathe” e “Got some”) e “Small Town”.

Chi ha ascoltato i Pearl Jam e non li ha mai visti sul palco non può capire come il gruppo di Seattle possa radunare folle come quella del parco San Giuliano. I PJ sono animali da stage, come pochi altri al mondo, Rolling Stones e Bruce Springsteen ad esempio. Tra un brindisi con vino italiano (bevuto «a canna« è sempre rock) dopo “Breath” Eddie riprende il foglio e legge «Questa canzone la dedico ai miei amici di Roma (…) l’ho scritta in una piccola auto» e parte “M.F.C.”. “Even flow” suona rock come non mai, con la chitarra solista di Mike McCready impegnata in assolo dietro alla testa, senza sbagliare una nota.

Il primo set si chiude con “Porch”. E dopo qualche minuto si continua con “Red Mosquito” e con una sorpresa: sul palco c’è anche Ben Harper e la sua slide impreziosisce ancora di più la performance. Vedder è felice come un bambino, imbocca perfino Harper con la bottiglia che accetta divertito. Dopo il duetto si va avanti. Il cantante dei PJ salta, corre, si avvicina al pubblico si arrampica sui Marshall come non faceva da tempo. Passa anche la cover di Joe Strummer “Arms aloft” e arriva l’inno “Jeremy”.

Nei bis arriva anche “Once”, “Black”, sui «molti significati dell’amore» come dice Vedder, poi si arriva all’apoteosi con «Alive».

Per l’ultima canzone si richiamano tutti sul palco, compreso Ben Harper e i Relentless7. “Rockin’ in the free world” di Neil Young è un ottimo arrivederci. Tutta la band lancia tamburelli al pubblico. «Per noi l’Italia era come la luna, una cosa da sognare – saluta Vedder – adesso ci siamo saliti sopra. Grazie mille, ciao Venezia!».

Fanview: Pearl Jam a Venezia

Di Leonardo Petrucci

Nei giorni successivi alla data dei Pearl Jam a Venezia, PJ OnLine ha ichiesto ai fan di scrivere una recensione dello show. Tra tutti i jammers che hanno partecipato è stata scelta una recensione, quella di Leonardo che trovate qui sotto.

Nel tardo pomeriggio mentre suona, Ben Harper preannuncia un dear friend of ours. Arriva di corsa Eddie Vedder, camicetta a mezza manica blu e capello al vento; la solita barba incolta e le gambe che si flettono già in modalità mi-dò-in-pasto-alla-folla. Cantano Under Pressure onorando Bowie e Mercury (bissando il successo del duetto presentato a Londra il 25 giugno), poi Eddie sparisce. Tra i fan dietro le transenne il boato. Eddie è apparso, ha detto a suo modo “ci vediamo dopo!” e poi con un passo da cestista (con tanto di finta) è tornato dietro.

Alle 21 e 30 Boom Gaspar suona qualche nota all’hammond, alle spalle del palco si illumina di arancione la scritta Pearl Jam. “Ciao Venezia!” ecco le prime parole di Eddie, che sale insieme a tutti gli altri ed al suo solito fiasco di vetro. Il Nostro appoggia a terra il suo libro, le luci si dimenano, la folla grida, fischia. Prima delle classiche opening song Corduroy ed Interstellar Overdrive (fatte rispettivamente per terza e per seconda), l’inizio è Given To Fly. Come se un intero festival fosse quell’uomo della canzone che affronta le onde. I piedi dei jammers si levano da terra e tutti si danno al volo emozionale. La miccia è accesa, Stone Gossard sfodera il nuovo capello lungo, Mike McCready si muove come su di una giostra, ma sono le sue gambe! World Wide Suicide si inserisce con l’intro di chitarra stridente, continua da copione con Matt Cameron che colpisce la batteria con una carica da martello pneumatico. Poi il turno di The Fixer, singolo di punta del nuovo lavoro, Backspacer. La ciurma del Parco S. Giuliano è sulla linea dell’orizzonte e dopo ondate di rock, Stone imbraccia l’acustica e l’atmosfera si fa rosa con Elderly Woman. Hearts and thoughts they fade… fade away… il pubblico inizia a commuoversi.

Non piove più a Mestre (come qualche ora prima) e si vede anche qualche stella quando i PJ riecheggiano Breath, uno dei primi singoli; l’aria di Seattle esce dritta dal basso di Jeff Ament, che si dondola come un ragazzino. “E’ tanto tempo che non veniamo qui e ci sono due ragioni per cui siamo tornati: una è che abbiamo tante canzoni da suonare, l’altra è che il mio italiano fa schifo!” scherza Eddie, leggendo da un foglio, in un italiano non poi così incerto. Dedica la canzone successiva agli amici romani con cui l’ha scritta in automobile, Many Fast Cars. E vai con Even Flow, sorretta da un tempo molto più tirato dell’originale con Eddie che scandisce ogni perla delle lyrics (senza masticarle come negli show americani) e McCready che imbraccia la Strato come Hendrix, suonandola da dietro il collo. Il famoso visibilio della folla è adesso palpabile, è nell’aria. Dai megaschermi si nota che i cinque di Seattle sono invecchiati, ma le rughe e qualche capello bianco non sono un ostacolo. E’ la riprova che hanno ancora quella forza dei primi palchi. Attimi di silenzio e Mike attacca Present Tense, cospargendola di un crunch insolito spetto all’intro pulitissima della versione in studio. Admire me… Eddie prosegue il suo canto pro-umano-democratico: Do The Evolution è l’unica traccia che i Pearl Jam ci fanno assaggiare del loro repertorio anti-bushiano (canzoni come Grievance o Bushleaguer forse non se le ricordano tutti a Mestre).

Si accende Unthought known, capitanata dal leader che si concede un’ intro con qualche misura in più. Proprio come per il pezzo che chiude il primo atto: l’intramontabile Porch, elegantemente servita con il suo lungo solo – preceduto dalle giravolte di Mike intorno alla cassa. Il primo tornado di suoni si chiude, Eddie si è persino avvicinato alle mani che lo cercano, quelle delle prime file, con il loro fottuto braccialetto. Ben Harper ricambia il favore in Red Mosquito(suonandola seduto, poggiando la chitarra sulle gambe). Parentesi rilassante… Just Breathe presto seguita da State of Love and Trust, una cover di Joe Strummer e udite udite: Jeremy, il giro di basso più famoso della band di Seattle. Un cheers ogni tanto, qualche dedica, gesti di ode all’infinito scolpiti nelle movenze di Vedder, la passione negli occhi del forsennato Gossard, il vigore nelle braccia di Matt Cameron, il sorriso dolce del barbuto Gaspar. Il sipario del secondo atto cala, i meno appassionati escono e regalano qualche fottuto braccialetto che la fottuta security non accetta. Il sudore sulle fronti e dai mille corpi che riempiono il festival e nessun scatenato ferito. Terzo atto: Got Some fa da trampolino a Once.

Eddie sembra quasi fingere uno stage diving, gli occhi chiusi e l’inconfondibile timbro riecheggia; Jeff Ament è sul suo skate virtuale a far vibrare le corde, sfoggiando persino un metallico basso a kappa. I plettri di Mike si perdono nella confusione, Cameron beve vitamine. Sui primi accordi di Black, un sussulto generale. Sheets of empty canvas… fino alla litania finale da lacrime, prolungata… tu ru tu tu tu ru tu… qualcuno vorrebbe intonarla tutta la notte. Tutti sanno che tra poco si chiudono i giochi, è stato meraviglioso, ce n’era bisogno. Né Baba o’RileyYellow Ledbetter in chiusura, bensì una coda insolita aperta da una cover (Public Image) innalzata da Alive, grintosa e piena di vita come sempre, indimenticabile. “Siamo nati come una piccola band e suonare in Italia, pensavamo che sarebbe stato come toccare la luna. Adesso abbiamo il nostro posto sulla luna.” Parole di Vedder, di Eddie “Motherfuckin” Vedder come si presenta lui stesso dopo aver ricordato i nomi di tutti gli altri. Soprattutto dopo una catartica Keep On Rockin’ In The Free World, in cui compaiono anche il brillo Harper e i Relentless7*. Mike lancia gli utlimi plettri, Stone sorride, Boom fa ondeggiare la chioma grigiastra, Jeff si sdraia a terra, Eddie regala la sua bottiglia (poco prima ha gettato la chitarra a terra – il rock è questo!) poi distribuisce i tamburelli bianchi. Ci regala un burlesco vaffanculo.

E’ stato un viaggio romantico, un caldo regalo, un modo per rendere umilmente omaggio a quella musica che sa riempire la mente e far rabbrividire, con tutta l’umiltà, il carisma e la purezza che li contraddistingue. Alcuni spengono l’ultima sigaretta, altri accendono la prima, molte mani ancora sbattono l’una contro l’altra. Per dire tutte quelle cose dentro di noi, che cinque ragazzi di Seattle da vent’anni, sanno spiegarci come pochi altri.

* Nota di PJ Online: oltre a Ben Harper coi suoi Relentless7, Rockin’ In The Free World ha visto la partecipazione di un altro illustre ospite, Rob “The Drifter” Machado, celebre pro-surfer e grande amico personale di Ed Vedder.