La Mia Vita in Musica: I 13 Dischi Preferiti di Eddie Vedder

My Life in Music: Eddie Vedder

Spin | Dicembre 2002

By Greg Milner
Traduzione a cura di Acrobat

Dai Messia del punk rock ai mistici del Medio Oriente, gli eroi musicali di Eddie Vedder sono intensi e difficili esattamente come lui.

“I know I was born and I know that I’ll die / The in between is mine,” canta Eddie Vedder su “Riot Act”, il settimo album dei Pearl Jam appena uscito. Fin dall’infanzia, l’in between di Vedder è stato pieno di musica, dalla dinamica voce del giovane Michael Jackson al ringhio disperato dell’eternamente vecchio Tom Waits. In qualche modo, la passione costante di Vedder per la musica lo ha catapultato nella posizione che occupa oggi: seduto nella terrazza della sua suite in un albergo di lusso a New York City in un ventoso giorno autunnale, mentre fuma a ripetizione e disegna l’arco della sua vita attraverso i dischi che hanno significato di più per lui.

Tenendosi la testa tra le mani, guarda scettico la lista che ha impiegato una settimana a stilare, riempiendo le pagine di un quaderno nero. “Ho un po’ di esitazione, perché forse potrebbe demistificare tutto,” dice. “Le nostre influenze sono quello che siamo. È raro che qualcosa sia assolutamente puro; anche Daniel Johnston suona come i Beatles. E c’è il problema delle band di cui mi chiedono sempre, quelle che derivano dal primo sound di Seattle. Non diluiscono abbastanza le loro influenze.”

Vedder non è cattivo, ma risulta chiaro dalla sua lista che ha un debole per gli artisti che si ritagliano una propria nicchia, con poca considerazione per i trend e le mode, dal pioniere nerd-core David Byrne allo sperimentalista indie Jim O’Rourke. La perseveranza è un tema che viene fuori spesso in “Riot Act” .”Love Boat Captain” è alternativamente elegiaca e propulsiva nel commemorare le persone schiacciate a morte durante un set dei Pearl Jam a un rock festival danese nel 2000 (“Nove amici che non conosceremo mai”). La canzone si conclude con Vedder che dice a se stesso che tutto quello di cui abbiamo bisogno è l’amore, un classico sentimento del rock che rende universale la tragedia. Come i musicisti che rispetta, Vedder vuole affrontare temi importanti. Riserva il suo disprezzo per chi non ci prova neanche, come il nostro comandante in capo: “Nato in terza base, crede di aver fatto un triplo”, ironizza in Bu$hleaguer.

Per capire Vedder bisogna capire la sua musica. Curandosi di sottolineare che sarebbe necessario produrre anche le liste dei suoi colleghi di band per una vera summa dei Pearl Jam, torna alla sua lista. “Se fosse possibile fondere tutti questi dischi insieme,” dice, “sarebbe esattamente la nostra musica”.

 

Jackson 5, Third Album (Motown, 1970)

“Questo è il primo ricordo concreto di una musica che mi sia rimasta impressa. Vivevo in una zona malfamata a Evanston, Illinois, in una casa famiglia per ragazzi. Avevamo questi dischi dei Jackson 5. Mi identificavo molto nelle loro figure, avevano più o meno la mie età, ma ce la stavano facendo. Ti faceva venir voglia di dire: “Forza ragazzina, siediti. Ti faccio vedere quello che so fare!” e tu l’avresti fatto. Come dici tu, Michael”.

The Beatles, The White Album (Apple, 1968)

“Questo è una specie di libro di testo per uno nato nel 1964. Avevo una cassetta chiamata “Revolver White Album”. Non realizzai che erano due album distinti se non anni dopo. “The White Album” ha delle canzoni che piacciono ai ragazzini, come “Ob-La-Di, Ob-La-Da”, ma se ti fai prendere veramente arrivi a “Revolution 9”. Voglio dire, quelle roba ti apre letteralmente gli orizzonti. È dove cominci a trovarti a tuo agio con gli ascolti cosiddetti “difficili”.

The Who, Tommy (MCA, 1969)

“Penso che sia stata una babysitter a portarmi “Tommy”. E ascoltavo già “The White Album”, quindi ero abituato a due ore filate di musica. La teatralità di “Tommy” mi emozionava. Aveva un’overture, un theme musicale. Iniziai ad ascoltarlo come un pezzo unico. Andava oltre la canzone da tre minuti. Quando ascolti queste da giovane, il tuo atteggiamento verso la musica cambia; inizi ad accettare cose che sono diverse”.

Ramones, Road To Ruin (Sire, 1978)

“Non ero veramente consapevole del punk rock – mi sono fatto il mio primo taglio alla moicana solo a 22 anni – e questo disco ha rotto l’uovo, diciamo. In un certo senso facevano paura, forse perché avevano l’aspetto di una gang. A 13 anni
 ho avuto la mia prima chitarra, e riuscivo più o meno a suonare le canzoni di Ted Nugent, anche se non riuscivo a suonare gli assoli. Ma riuscivo a suonare accompagnando tutte le canzoni dei Ramones”.

Talking Heads, More Songs About Buildings and Food (Warner Bros., 1978)

“Dopo i Ramones, ero più orientato verso la new wave che verso il punk. Non ricordo su che album sia, ma c’è una canzone che dice “Sii un po’ più egoista”. I miei genitori si stavano separando a quei tempi, e io mi chiedevo come mai le famiglie degli altri andassero bene mentre la mia si stava dividendo. Quel verso mi colpì e mi tolse da quel tipo di pensieri”.

Various Artists, Music and Rhythm (PVC, 1982)

“Peter Gabriel ha fatto uscire questa compilation di world music. L’ho presa semplicemente perché c’era una canzone di Pete Townshend chiamata “Ascension Two”, una jam bizzarra. Sull’album c’erano anche i Drummers From Burundi, un coro vocale di Bali, con Nusrat Fateh Ali Khan. Ha aperto i miei orizzonti musicali. Anni dopo ho avuto l’occasione di suonare in una band con Nusrat per un paio di giorni ed è stato incredibile”.

Sonic Youth, Daydream Nation (Enigma, 1988)

“Sono sicuro che mi sto scordando un paio di dischi prima di questo, come “Murmur” o “Chronic Town” dei R.E.M. Quelli erano gli anni in cui mi fumavo le canne, quindi potrebbero esserci alcune cose che non ricordo. Ma ricordo molto bene quando ascoltai “Teen Age Riot” [la prima traccia di “Daydream Nation”] e ne fui subito conquistato. La batteria di Steve Shelley aveva questo ritmo, e il loro approccio alle chitarre – il modo in cui creavano onde di suoni e di ritmi – era qualcosa che non avevo mai sentito prima. E i testi dell’album erano come un’avventura. Potevo ritrovarmi in alcune cose, ma avevo anche la sensazione di avventurarmi in qualcosa che non avevo ancora sperimentato. Lo stesso succedeva con i Ramones. Per me, era così che suonava New York. Ero molto intimidito da New York, e lo sono ancora”.

Jim O’Rourke, Insignificance (Drag City, 2001)

“La prima canzone è come un coro, con arrangiamenti e melodie bellissime, e Jim che canta di come la gente nel mondo deve prendere il controllo, perché se non lo facciamo il mondo finirà. Forse sono di parte, perché conosco Jim, ma lui è uno di quei tipi che, quando ascolti un suo disco, è come avere un amico artista che conosci abbastanza bene, poi un giorno vedi un suo quadro e pensi, “Cristo, c’è molto di più in lui di quanto immaginassi”. Ecco come sono i dischi di Jim”.

Fugazi, 13 Songs (Dischord, 1989)

“So di aver visto i Fugazi dal vivo prima di sentire questo disco. È stato al Capitol Theater a Olympia, Washington. Penso che fosse uno dei primi International Pop Underground festival. Sono andato allo show perché aprivano le L7 ed ero loro amico. I Fugazi furono trascendentali. Il giorno dopo ho comprato il disco”.

Soundgarden, Screaming Life/FOPP (Sub Pop, 1987) & Mudhoney, Mudhoney (Sub Pop EP, 1989)

“La Sub Pop è stata la prima etichetta della quale sapevo di poter comprare dischi di band che erano fantastiche. La band in cui suonavo in quel periodo a San Diego aprì per i Mudhoney e i Lemonheads. Non avevo idea che avrei avuto a che fare con Seattle.”

Tom Waits, Nighthawks at the Diner (Elektra/Asylum, 1975)

“Mi piace il fatto che non puoi veramente etichettare la sua musica. Volevo uscirmene con una frase alla Tom Waits su Tom Waits: “Tom non aspetta nessuno” [gioco di parole con il cognome del cantante, che in inglese significa anche “a
spetta”, n.d.r.] [ride]. Penso che lui una volta abbia detto di essere orgoglioso di fare buona musica di sottofondo. Ma se provi a sezionarla o a fare l’accompagnamento ti rendi conto che ha tutti questi cambi di accordo che non sono mai lineari. Sembra che cambino, e il risultato è quello di una vecchia macchina che ha bisogno di una messa a punto. Alla fine hai tutti questi suoni che creano la melodia, ed è un letto perfetto per la voce”.

Pixies, Surfer Rosa (4AD, 1988)

“I Pixies sono stati enormi per me. Frank Black, o Black Francis, come era chiamato ai tempi, aveva questa voce che lasciava semplicemente a briglia sciolta. La lasciava andare e succedevano cose strane. Non si trattava tanto di ribellione quanto piuttosto di libertà, nel senso che poteva anche solo emettere suoni come “Aie! Aie! Aie!” e far arrivare comunque il messaggio. Si liberava con la sua voce. David Byrne faceva lo stesso. Non sono mai stato davvero capace di fare altrettanto. Beh, a volte credo di sì, ma non in questo modo”.