Trascrizione dell’intervista andata in onda su Hobo
Radio 1 Rai | Novembre 2002

Pubblichiamo, per gentile concessione del collega Massimo Cotto, la trascrizione dell’intervista realizzata per il programma di Radio Rai 1 “Hobo” a Eddie Vedder, in occasione della pubblicazione del settimo disco di studio dei Pearl Jam, “Riot Act”.

Un disco che nasce dalla rabbia e dalla disillusione verso l’America post 11 settembre, come spiega lo stesso cantante.

Questo disco sembra essere pieno di rabbia e disillusione. È così che ti sentivi quando hai scritto queste canzoni?
Beh, vediamo… certo. Almeno per gran parte delle giornate. Disillusione è una parola interessante. Penso che puoi sentirti disilluso perché non hai tutti i fatti di fronte a te, e sei confuso, e non capisci le cose perché le cose non ti appaiono mai chiare. Ti senti insicuro delle fonti, conosci le risposte a quei problemi ma non ti soddisfano fino in fondo; e così la disillusione cresce. Alcuni casi sono peggiori di altri, per esempio quando scopri quello che c’è dietro l’amministrazione repubblicana e persino dietro le ultime elezioni di Gore e Bush qui in America. Tutte le grandi corporation hanno raccolto fondi per entrambe le campagne presidenziali e per supportare entrambi i candidati come se fossimo a Las Vegas, come se raccogliessero scommesse da entrambi i lati del tavolo. Quelli sono i momenti in cui la disillusione si insinua dentro di te. Per quanto mi riguarda, ho dato il mio appoggio a Ralph Nader, partecipando ad alcuni comizi e cercando di attirare attenzione su di lui, visto che i principali organi di informazione non gli davano alcun risalto, considerandolo una minaccia per le istituzioni. È stata una bella esperienza. Ho capito di non essere il solo a pretendere di essere rappresentato meglio dai nostri leader.

Nei testi c’è un personaggio ricorrente: il capitano (che compare in “Green disease” e “Love Boat Captain”). In parte hai già risposto alla domanda, ma forse puoi aggiungere qualcosa: pensi che il capitano non possa salvare la nave perché non ci sono leader sufficientemente validi? 
In “Green Disease” i membri dell’equipaggio e i passeggeri della nave dicono al capitano che la nave è poco sicura e che c’è il rischio di annegare e cercano conforto in lui, ma, alla fine, scoprono che è proprio il capitano a imbarcare volontariamente acqua; credo che questa metafora rappresenti adeguatamente la situazione americana degli ultimi tempi. Che cosa significa tutto questo? Significa che… lascia che mi venga in mente un buon esempio. Significa che siamo in una guerra che nessuno condivide fino in fondo, ma che appoggiamo perché ci fanno credere di essere dalla parte della ragione. Bush ha colto al volo l’opportunità dell’11 settembre per ingannarci: non siamo in guerra per combattere il terrorismo, ma per motivi che hanno a che fare con il petrolio, e il commercio con i paesi arabi attraverso l’Afghanistan . Non combattiamo per la libertà: non credo che la nostra libertà sia minacciata, anzi credo che la mia libertà sia minacciata da forze interne agli Stati Uniti più che dai nostri nemici oltre confine. Il nemico è con noi. L’altra canzone, “Love Boat Captain”, riprende ed estende il concetto. Ho inventato questa figura-guida che mostra la via e illumina il cammino, si batte per un confronto aperto, per un dibattito onesto tra le diverse fazioni, crede all’idea di fratellanza universale – non nel senso retorico e banale che annulla le differenze, ma di comprensione tra le culture e le opinioni che contempla le differenze e vive nel rispetto della vita altrui. Insomma, siamo tutti sulla stessa barca, che poi è la nostra terra, questo pianeta blu e verde che galleggia al centro del nulla e procede verso il nulla. A me pare un miracolo che quello in cui crediamo possa trovarsi in un punto abbastanza distante dal sole da non finire bruciato e altrettanto lontano dai ghiacci per far sì che non termini ibernato, congelato, freddo per sempre. Penso e credo a un’evoluzione necessaria per l’essere umano. Siamo nati dopo le piante e dopo gli animali, dopo il sole e la luna, cinque bilioni di anni fa, ma siamo molto più indietro rispetto a loro, perché ci siamo presentati solo 300.000 anni fa. Dobbiamo evolverci, ma nel rispetto della natura e di questo mondo. Negli ultimi vent’anni siamo andati troppo velocemente, e non sono sicuro che la direzione sia quella giusta. A me sembra di marciare verso l’inferno.

Hai mai pensato o ti sei mai sentito di essere un portavoce per la tua generazione, e cosa pensi di quelli che ti considerano tale? 
Non mi sento un portavoce nemmeno per West Seattle. Sento di essere ciò che sono: un ragazzo con una chitarra e una macchina da scrivere che ha un’opinione e una fede, e che è felice se può trasformare le sue idee in un ritmo e in un suono e, magari, in una canzone, perché è la mia forma di comunicazione preferita. Non pretendo di lasciar cadere ogni grano di sale e vederlo raccogliere e illuminare dal sole. Molta gente ascolta la musica come sottofondo, perciò non credo di avere la capacità di smuovere le masse.

In “I Am Mine”e c’è un verso bellissimo: “The north is to south what the clock is to time”, il nord sta al sud come l’orologio sta al tempo. Qual è il significato preciso? 
A essere sincero, ho scritto quel verso in cinque minuti e desideravo solo arrivare al verso successivo nel minor tempo possibile. A volte, le cose ti escono senza rifletterci e, solo in un secondo momento, quando ci rifletti, capisci che cosa volevi dire. Se devo vivisezionare le mie parole, allora dovrei dire che non ho mai ritenuto l’orologio importante, in termini di tempo. L’orologio è una convenzione, una rappresentazione. Il tempo è una tua creazione personale, nell’ambito del tempo reale. Il tuo tempo in uno stato di sogno si lega al tempo del ricordo, dove il tempo reale viene alterato. E poi, quanto è durata davvero la tua ultima settimana? Moltissimo, rispetto al lavoro che hai dovuto compiere e che ha assorbito tutte le giornate, oppure molto poco, perché non hai avuto nemmeno un minuto per riflettere. Quindi, il nord non ha niente da spartire con il sud, sono troppo diversi l’uno dall’altro, proprio come l’orologio non c’entra nulla con il tempo.

Canzoni come “Ghost” o “Cropduster” sembrano evocare il sogno della fuga, la speranza di volare via o, quanto meno, la sensazione di non sentirsi parte di questo mondo. E’ un’interpretazione corretta o solo una mia impressione? 
Anche “Can’t Keep” rientra nella categoria, credo. È una canzone piuttosto ridicola che contempla il suicidio come opzione. Credo che non mi toglierò mai la vita, ma è un pensiero che viaggia per strade sue e che, alla fine, ti concede il lusso di decidere da solo, senza interferenze esterne: “Sai che ti dico? Posso abbandonare questo pianeta da un momento all’altro, per me potete andare tutti affanculo, voi e chiunque altro”. È un orribile modo di pensare e non suggerirei l’idea del suicidio a nessuno, ma, per qualche ragione, quando mi sento il peso del mondo sulle spalle, la mia mente prova un senso di liberazione nel pensare: “Beh, se le cose dovessero peggiorare, potrei sempre togliermi la vita”. Non so se avrei mai il coraggio di farlo davvero, ma è una possibilità. Ho scritto “Can’t Keep” con l’ukulele, quasi per spogliarmi di ogni costrizione e sentirmi libero, finalmente, in tutti i sensi, anche musicalmente. La fuga è uno dei mezzi che ho sempre utilizzato per affrontare le cose della vita. Non è codardia, è che non sempre puoi affrontare quel che ti si piazza davanti, e hai bisogno di tempo per pensare, di allontanarti dal problema. Certo, non devi isolarti troppo a lungo, altrimenti perdi il contatto con la realtà e non va bene. L’isolamento, la solitudine non ti sono sempre amiche, ma a volte sono compagne di vita necessarie. E un tema ricorrente, nella fuga, è il nascondermi. Solo lì capisco chi sono realmente. La fuga è parte di me, immagino.

Il rock ti ha dato la felicità, ma c’è stato un momento in cui ha significato dolore, infelicità? 
Beh, il ricordo di tutto quello che è successo a Roskilde, in Danimarca, è incancellabile. Quello è stato uno dei livelli di dolore e disperazione peggiori che io abbia mai attraversato. È stato un trauma, uno shock. La musica, in generale, e soprattutto quello che possiamo chiamare il rock ‘n’ roll aggressivo, ovvero Who, Fugazi, Sonic Youth, Mudhoney, e la lista potrebbe continuare, è sempre stato un veicolo per affrontare l’infelicità. Non è necessario che il rock ‘n’ roll ti faccia sentire meglio, è importante che i testi abbiano una sostanza sufficiente a non farti sentire solo. Perché, a volte, i dolori che attraversi sono così forti che non riesci a dividerli. Ti senti solo, non hai nessuno con cui comunicare. Così è esattamente come i Pearl Jam si sono sentiti dopo la tragedia di Roskilde. In “Love Boat Captain” dico: “Abbiamo perduto nove amici che non conosceremo mai / Esattamente due anni fa”. Non eravamo amici intimi, così, al ritorno in America, ci sembrò di essere rientrati da una guerra, con mille difficoltà di rapporto. Nessuno di noi voleva parlare del campionato di football, era davvero dura parlare di qualsiasi cosa. E questo, lo ripeto, è quel che è successo dopo il concerto in Danimarca. E comprendiamo perfettamente che tutto questo è nulla in confronto a quello che hanno passato gli amici e i familiari dei ragazzi.

Alla fine di “Love Boat Captain” c’è una citazione beatlesiana di “All you need is love”. Hai riletto “Gimme Some Truth” di Lennon, hai rivisitato i Ramones, che hai introdotto nella Rock’n’roll Hall of Fame. Hai suonato con Neil Young, sei amico di Pete Townshend. L’approccio dei Pearl Jam è un po’ diverso da quello di altre band della vostra stessa età. Guardate avanti ma anche indietro. È questo il senso del rock’n’roll? 
Non saprei, lasciami riflettere per un secondo. Non saprei davvero come rispondere. Immagino sia difficile perché non ho un approccio consapevole, non mi rendo conto di ciò che faccio. Ognuno di noi porta dentro le sue influenze e le proprie esperienze. Io, Stone, Matt e Jeff, anche Mike.
 Ci portiamo dentro alcuni ritmi, certi suoni che vanno indietro nel tempo, ma che non appartengono necessariamente allo stile Who. Ognuno di noi ha un padre putativo, a volte abbiamo lo stesso padre, ma lo trattiamo in maniera diversa l’uno dall’altro. Entriamo in studio ed espandiamo le reciproche influenze. Sempre. Tutto nel nome del divertimento e dell’intrattenimento, tutto per soddisfare le nostre voglie di musica. Davvero. In sintesi, il nostro è un approccio inconsapevole dettato dalla disponibilità e dall’apertura verso la musica degli altri ragazzi del gruppo, nella speranza di trovare un posto per una canzone che, alla fine, rappresenti ognuno di noi privato del suo egoismo musicale. Siamo un gruppo, non cinque musicisti singoli. Ci vuole un po’ di tempo prima di arrivare a questo risultato.

Quello che volevo dire è che i Pearl Jam mi pare abbiano una connessione forte e profonda con il “vecchio” rock and roll, invece di porsi “contro”, come fanno altre bands, fin dal primo momento che iniziano a suonare. 
Lo so, è dura pensarla in questo modo, perché ogni cosa è giè stata fatta e tu puoi solo provare a reinventarla senza paragonarti a loro. Ci è stato dato qualche talento, l’abilità di lavorare con chitarre, basso e batteria, ma se penso agli Who, che hanno distrutto, letteralmente e metaforicamente, ogni vetro nella grande sala del rock and roll… Credo di averlo già detto, forse nelle note di copertina di qualche disco, ma i gruppi storici ci hanno lasciato in dote molta grande musica e poche possibilità di espanderla. Però questa musica, questo rock, è quella che mi entra nelle vene, è la mia forma preferita di comunicazione, come dicevo prima. E penso che domani sera ci sarà una band, chiamata Dead Moon, che suonerà qui a Seattle e sono sicuro che arriverà a suonare anche in Italia. Tre strumenti: chitarra, basso e batteria, con un uomo e una donna che sono sposati da venti o trent’anni. Niente è più potente e efficace di quegli strumenti, di quel suono. Incidono dischi a casa loro, nell’Oregon, hanno una forza spaventosa. È quel che fa per me. La semplicità di chitarra, basso e batteria. Rispettiamo, naturalmente, chi è venuto prima di noi e cerchiamo, nel nostro piccolo, di aggiungere qualcosa e di espandere i confini della musica rock, anche se suppongo sarebbe più facile inventare con batteria e loop. I Pearl Jam credono a chitarra, basso e batteria e alla possibilità, con quegli strumenti, di scrivere una canzone migliore.

In un brano dici: “Convivere con il dolore è un’arte”. Il dolore è parte della tua vita, della tua esperienza? 
Credo sia parte della vita di tutti, anche se mi piace pensare che, da qualche parte, là fuori, ci possa essere qualcuno che ha tutto a portata di mano e che è protetto da ogni dolore. Credo che persino il più ricco e benestante uomo sulla faccia della terra ricavi dolore da qualcosa che non può combattere. Ognuno ha una barca, o uno yacht, che prima o poi affonda e lui non è in grado di portarlo a riva. È una costante dell’esistenza umana, l’assicurazione sulla nostra vita, puoi esser certo che toccherà anche a te, prima o poi. Certi anni può colpirti a intervalli regolari, due volte la settimana e, a volte, la tua reazione è così stupida e inutile che riesci persino a peggiorare le cose. Capita quando ti domandi: “Perché proprio a me?”, rifiuti il dolore e questo ti prende alle spalle, ti aggredisce. Se, invece, trovi il modo per conviverci, per accettarlo, per riconoscerlo come parte di te e dell’esperienza umana, allora sarai forse in grado di digerirlo e metabolizzarlo, di scoprire un modo per non farti annientare. È come camminare con un acciacco, con un dolore muscolare: puoi sederti e aspettare di guarire, perdendo tempo prezioso, oppure puoi continuare a camminare, abituandoti alla sofferenza. Un giorno smetterai di avvertirla. Se il dolore è troppo forte puoi ricorrere all’analisi, ma non sono sicuro sia una buona idea. Meglio avere qualche amico con cui confidarti e parlare. È questa la linea di confine, è come far scivolare la luce nel grigio. Puoi farlo solo con delicatezza, altrimenti rovini tutto. Devi essere gentile con te stesso e convincente fino a spingerti a trovare la felicità persino nel più brutto dei momenti. Devi spingere il dolore lontano da te, per far sì che non ti segua per ogni minuto della giornata. Non bisogna portare rispetto alla sofferenza, perché lei, di rispetto, non ne ha e ti spazzerà via.

(Massimo Cotto)