A vent’anni dalla tragedia di Roskilde, Luca di pearljamonline.it cerca di ricordare quella terribile giornata che cambiò per sempre i Pearl Jam. Foto: Carlo Vergani
Era sabato, sabato mattina, quando accendendo la TV appresi la notizia. La sera prima, durante un concerto dei Pearl Jam al festival danese Roskilde, erano morte otto persone (il nono, in condizioni gravissime, avrebbe lasciato questo mondo il 5 luglio). La Rai però mandava continuamente immagini di repertorio, che spacciavano come esclusive della sera precedente. Al posto dei PJ si vedevano i Red Hot Chili Peppers, io pensai che non poteva essere accaduto tutto quello al gruppo della mia vita.
Mi convinsi quasi che fosse successo davvero durante un concerto dei Red Hot Chili Peppers. Internet non era ancora nelle case di tutti, di smartphone manco a parlarne – una vita fa, insomma – accedere alle ultime notizie non era così semplice.
Fu solo con il calare della sera che altri reportage televisivi, più precisi, confermarono che la band che si stava esibendo durante quella tragedia erano proprio loro, i Pearl Jam.
Anni dopo, Pete Townhend dirà che in quelle ore aveva contattato Vedder cercando di dargli coraggio. “E’ capitato a voi perché siete un gruppo in grado di sopportare una cosa simile”. Non è un caso, nel 1979 capitò una tragedia sinistramente simile durante un concerto a Cincinnati del gruppo preferito del cantante dei Pearl Jam, gli Who. Il gruppo inglese rilasciò dichiarazioni al limite del cinismo e fece tutto quello che di sbagliato avrebbe potuto fare.
I Pearl Jam si trincerarono invece nel loro hotel a Copenaghen cercando risposte che non sono mai arrivate, nemmeno a distanza di vent’anni esatti da quel maledetto giorno.
Il 30 giugno del 2000 per me è stato il giorno della fine dell’adolescenza. Solo otto giorni prima avevo visto il gruppo della mia vita al Forum di Milano, nelle orecchie e nel cuore c’erano ancora le note di quella Daughter e di quell’infinito botta/risposta di Eddie Vedder con il suo pubblico, con noi.
Solo qualche giorno dopo mi diplomai e negli anni seguenti tutti gli amici e amiche presenti a quel concerto, proprio come me, hanno fatto figli, alcuni hanno cambiato vita, altri hanno girato il mondo, quel mondo che in vent’anni è cambiato così tanto e che negli ultimi mesi pare essere definitivamente impazzito dietro un nemico invisibile.
Spesso si associa a un cambio stilistico da parte di una formazione o a un momento di fama improvvisa, la trasformazione di un gruppo o di un’artista. Nel 1965, quando Bob Dylan prese l’elettrica mandando affanculo tutti quelli che l’avrebbero voluto per sempre un cantautore con l’acustica, sancì di fatto un cambio di rotta non solo nella sua storia, ma anche nei suoni che da lì in avanti avrebbero fatto capolino nella sua produzione artistica. Ci saranno sempre quei fan che continueranno a dire che Bruce Springteen era meglio prima della fama che gli portò la pubblicazione di Born in the USA. Esistono schiere di fan che amano i Radiohead degli anni novanta, altri che li adorano per tutto quello che hanno fatto da Kid A in poi.
Per i Pearl Jam invece quello che divide la loro prima parte di carriera dalla seconda, quella tuttora in corsa, è una data, il 30 giugno del 2000. Da quel giorno in poi, il gruppo iniziò a suonare non più come se le loro vite dipendessero in modo totale dalla loro musica. Loro, che avrebbero voluto solo far musica, si videro fronteggiare qualcosa che nulla aveva a che fare con le loro canzoni, i loro dischi e i loro tour.
Penso che Townshend avesse ragione, tutto questo è successo ai Pearl Jam perché erano abbastanza forti da riuscire a saltarci fuori da una cosa del genere. Anche se ogni 30 giugno, il pensiero corre veloce a quei nove ragazzi e una lacrima è sempre lì pronta a rigarti il volto.
Things were different then, all is different now. I tried to explain, somehow.

Nasce nel 1980 a Reggio Emilia. Crea pearljamonline.it nel 2001 e scrive la prima edizione di “Pearl Jam Evolution” nel 2009 insieme alla moglie Daria. Dal 2022, conduce due podcast: “Pearl Jam dalla A alla Z” e “Fuori Orario Not Another Podcast”. Ha collaborato con Barracuda Style, HvsR, Rolling Stone, Rockol e Il Fatto Quotidiano. Continua imperterrito a tentare di trovare “belle melodie che dicono cose terribili”.
Canzone preferita: Present Tense
Album preferito: No Code
Artisti o gruppi preferiti oltre i PJ: Tom Waits, Soundgarden, Ramones, Bruce Springsteen, IDLES, Fontaines D.C., The Murder Capital, Dead Kennedys, Mark Lanegan, Cat Power, R.E.M.