Oggi proviamo a classificare i dischi dei Pearl Jam, dal meno riuscito al loro migliore.
Non è facile perché pensiamo che la band di Seattle non abbia mai pubblicato un disco che si possa davvero definire mediocre (come, per esempio, ha invece fatto Bruce Springsteen con Human Touch o gli U2 con Pop). Questa non vuole essere una classifica definitiva ma piuttosto una guida ragionata ai loro dischi, dal meno riuscito fino ad arrivare al loro capolavoro.
12 BACKSPACER
Il nono disco in studio dei Pearl Jam, il più diretto e accessibile della loro discografia, difetta della velocità che il gruppo ha impiegato nello scriverlo e nel registrarlo, riscontrabile nei facili arrangiamenti e nei testi di Eddie, questa volta poco incisivi.
A fianco di pezzi da novanta come Just Breathe, Amongst The Waves e Unthought Known, ci sono troppi riempitivi (Johnny Guitar, Supersonic), canzoni che sarebbero suonate meglio in versioni più minimali (Speed Of Sound su tutte) e tracce che purtroppo non hanno superato la prova del tempo (Gonna See My Friend, Got Some, Force of Nature). Rimane comunque un buon disco, fresco e leggero.
11 LIGHTNING BOLT
Uno dei migliori dischi pubblicati nella seconda parte di carriera del gruppo. Più di metà delle canzoni sono da ricordare, dalla sentita ballata Sirens al furioso hardcore di Mind Your Manners, dalla crepuscolare Pendulum all’evocativa Yellow Moon.
Se dalla tracklist finale fossero state depennate un paio di canzoni, la blues Let The Records Play e la rilettura di Sleeping By Myself sostituendole con un paio di outtake del periodo (Walk Off, Desert Walk), avremmo probabilmente avuto il miglior disco della band dai tempi di Yield. Da notare che la produzione di Brendan O’Brien pare a tratti un po’ fuori fuoco (vedi Future Days, arricchita da una sottofondo che non si addice alla fragilità della canzone).
10 PEARL JAM
Le ballate dell’Avocado Record, l’unico disco che il gruppo si è autoprodotto arrivando a dilatare le registrazioni per oltre 14 mesi, sono la parte migliore del lavoro. La struggente Come Back, dedicata a Johnny Ramone, l’emozionante Parachutes, l’epica Inside Job.
Anche i pezzi rock, comunque, non sono affatto male: Life Wasted, Marker in the Sand e Gone i risultati migliori. Quello che però non convince al 100% è l’opera nella sua interezza, a tratti troppo lunga e che risente indubbiamente della prolungata gestazione nello scriverlo e nel registrarlo. Un buon disco dove i Pearl Jam hanno dimostrato che un produttore, per una band come la loro, è (ancora) indispensabile.
9 GIGATON
Se il primo lato dell’undicesimo album in studio dei nostri è uno dei migliori della loro carriera, è il secondo che non convince in pieno, presentando troppi filler uno dietro l’altro.
Il lato A conta però su alcune delle migliori canzoni della carriera del gruppo (la sperimentale Dance of the Clairvoyants, la strepitosa Quick Escape, la maestosa Seven O’ Clock) e si riesce a far perdonare per tracce come Never Destination, Take the Long Way – testo e musica di Matt Cameron – e la soporifera Comes Then Goes. Gigaton si conclude alla grandissima con il mid-tempo Retrograde e la struggente River Cross, già presente dal 2016 nei set solisti di Vedder (ricordate l’epocale apertura al Firenze Rocks 2019?).
8 BINAURAL
Il primo disco dei Pearl Jam del nuovo millennio non contiene solamente alcune canzoni davvero strepitose (il mid-tempo Light Years, l’oscura Nothing As It Seems, la commovente Parting Ways) ma anche alcune delle tracce più arrabbiate del repertorio dei nostri come le sottovalutate Insignificance e Grievance.
Piuttosto è il suono del disco – binaurale, registrato da Tchad Blake – a non convincere, impastando troppo gli strumenti con la voce. Se nella tracklist finale fossero state incluse anche Sad, Fatal e In The Moonlight, scartate da Binaural e poi pubblicate su Lost Dogs, avremmo avuto uno dei migliori dischi di sempre dei nostri. Così non è stato.
7 RIOT ACT
Il disco dei Pearl Jam più legato al periodo in cui è stato pensato e registrato. La band aveva dovuto affrontare da poco la tragedia di Roskilde proprio nel mentre che George W. Bush iniziava il suo primo mandato come Presidente degli Stati Uniti d’America e le Twin Towers venivano rase al suolo.
In tutto questo, il gruppo di Seattle scrive e registra alcuni dei suoi pezzi migliori di sempre, I Am Mine, Love Boat Captain, All Or None; come controparte ci sono però pezzi fin troppo scontati (Get Right) e privi di mordente (Ghost, che gran testo però). La scarna e minimale produzione di Adam Kasper è senz’altro un (altro) punto a favore di Riot Act.
6 DARK MATTER
Al momento, il disco più recente dei Pearl Jam, oltre a essere uno dei loro più riusciti degli ultimi 25 anni. Ci sono canzoni rock trascinanti, Scared of Fear e React, Respond, mid-tempo ormai entrati tra i classici della band, Wreckage, e canzoni che attendevamo da una vita di ascoltare (Upper Hand).
Tra i brani davvero imperdibili, e in questo disco ce ne sono parecchi, è obbligatorio menzionare la potente Waiting for Stevie e la conclusiva Setting Sun, una delle migliori closing song di un album dei nostri.
5 YIELD
Sarebbe stato il miglior disco rock dei Pearl Jam degli anni novanta se non avesse dovuto fare a cazzotti con i precedenti (e ingombranti) Ten, Vs. e Vitalogy. Un disco positivo (Faithfull, Wishlist, Low Light, All Those Yesterdays) ma che allo stesso tempo non dimentica la rabbia degli esordi (la memorabile Do The Evolution).
Yield, splendidamente prodotto da Brendan O’Brien, contiene Given to Fly, una delle canzoni simbolo dei Pearl Jam, nonché uno dei brani più riusciti del gruppo, In Hiding, mancato singolo che avrebbe potuto scalare le classifiche di mezzo mondo.
4 TEN
Bisogna aggiungere davvero qualcosa? Ten è il disco d’esordio della band che proprio quest’anno compie 35 anni. Tutti i super classici della band sono qui: da Even Flow ad Alive, da Black a Jeremy passando per Porch e arrivando alla commovente Release.
L’unica nota stonata del disco di debutto del gruppo è la produzione di Rick Parashar, troppo radiofonica e commerciale, remixata da cima a fondo nel 2009 dal fido Brendan O’Brien ai tempi della ripubblicazione dell’esordio del gruppo.
3 NO CODE
Chissà se ora avremmo ancora una band chiamata Pearl Jam se non ci fosse stato No Code, il vero disco spartiacque della discografia dei nostri.
Jack Irons, il batterista subentrato a Dave Abbruzzese, contribuisce non poco a modulare il suono della band dei primi dischi verso qualcosa di differente che fece paura alla loro etichetta discografica dell’epoca (la Epic) per via delle scarse vendite ma che segnò un nuovo inizio per il gruppo. Present Tense, Smile, Off He Goes, Red Mosquito, le tribali Who You Are e In My Tree sono tutte qui: penso proprio non ci sia bisogno di aggiungere altro. Curiosità: è questo il disco dei PJ preferito dal sottoscritto.
2 VS.
Se c’è un perfetto disco rock nella discografia dei Pearl Jam è Vs., fotografia di una band che non lascia nulla al caso e suona ogni nota di questo album come se la loro stessa vita dipendesse da quelle canzoni.
E si sente: dalle tirate Go, Animal e Blood alle arcinote Daughter, Dissident, Small Town e Indifference fino ad arrivare ai suoni sperimentali di W.M.A. o al sentito blues di Rats. Senza dimenticare Rearviewmirror, uno dei dieci pezzi per i quali i Pearl Jam verranno ricordati anche tra cinquant’anni.
1 Vitalogy
Non un disco della band, piuttosto il disco della band. L’album dove tutti i componenti del gruppo, in quel periodo poco connessi gli uni agli altri, riescono a dare il meglio registrando l’album che fa la differenza.
Oscuro, ulceroso, a tratti tenebroso. Dal punk rock di Last Exit al quasi hardcore di Spin The Black Circle – ode al vinile quando tutti compravano i CD e le musicassette – fino ad arrivare alle memorabili Corduroy e Not For You. La punta di diamante del disco è senza alcun dubbio Better Man – scritta da un quattordicenne Eddie Vedder sul letto della sua camera, probabilmente la canzone più importante gruppo, la loro Born To Run, la loro Where The Streets Have No Name.
Da non dimenticare due delle migliori ballate del loro repertorio: Immortality, che ricorda da vicino il Neil Young di Cortez the Killer e la commovente Nothingman, scritta da Jeff Ament insieme a Eddie Vedder nell’arco di un paio di ore.
Il miglior disco di sempre dei Pearl Jam, punto e a capo.
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Nasce nel 1980 a Reggio Emilia. Crea pearljamonline.it nel 2001 e scrive la prima edizione di “Pearl Jam Evolution” nel 2009 insieme alla moglie Daria. Dal 2022, conduce due podcast: “Pearl Jam dalla A alla Z” e “Fuori Orario Not Another Podcast”. Ha collaborato con Barracuda Style, HvsR, Rolling Stone, Rockol e Il Fatto Quotidiano. Continua imperterrito a tentare di trovare “belle melodie che dicono cose terribili”.
Canzone preferita: Present Tense
Album preferito: No Code
Artisti o gruppi preferiti oltre i PJ: Tom Waits, Soundgarden, Ramones, Bruce Springsteen, IDLES, Fontaines D.C., The Murder Capital, Dead Kennedys, Mark Lanegan, Cat Power, R.E.M.