Soundgarden dal vivo a Milano 2012 / King Animal

Bentornati Soundgarden!
La cronaca del concerto a Milano, 4 giugno 2012

Nonostante si tratti a tutti gli effetti di uno show della band, ad affiancare i “grandi vecchi” di Seattle sono stati chiamati altri quattro gruppi che, nel complesso, delineano un cartellone davvero degno di nota, anche se forse non del tutto apprezzato dal popolo molto in vena di “nostalgia grunge” che si avventura tra i capannoni della Fiera di Rho, a Milano.

I Triggerfinger, rock band belga, scaldano il pubblico dal primo pomeriggio, seguiti dai Gaslight Anthem dal New Jersey, che propongono un ottimo set, purtroppo parzialmente rovinato dall’atteggiamento, spesso ai limiti dell’educazione, di una piccola parte del pubblico che comincia pigramente ad affluire. La setlist proposta è un riuscito mix tra il loro disco rivelazione, The ’59 Sound, alcuni cavalli di battaglia come le più recenti American Slang e Queen Of Lower Chelsea e diversi ripescaggi dal loro primo album e dall’ Ep Senor and The Queen C’è anche l’occasione di sentire per la prima volta un paio di pezzi dal nuovo disco, Handwritten in uscita a fine luglio (45 e Biloxi Parish). È poi il turno dei riformati Afghan Whigs, capitanati da Greg Dulli, gloria dell’underground americano e “vera” alternative band (sempre che la definizione “alternative band” abbia mai significato qualcosa, sicuramente si addice agli Afghan) che ha saputo mischiare il rock con il soul e la musica black: notevole l’affiatamento tra i componenti della band, se si pensa che il loro primo show dopo oltre dieci anni di split risale a soli dodici giorni prima, a New York. I Refused, hardcore band svedese anch’essa riformatasi dopo oltre dieci anni, propongono come da copione uno show infuocato, travolgente e dinamitardo. Tra slogan anti capitalisti e pezzi tratti dal loro disco migliore, The Shape Of Punk To Come, se da una parte spaccano i timpani ad alcuni spettatori impreparati, dall’altra convincono sicuramente i tanti fans accorsi per quella che al momento è la loro unica esibizione nello Stivale.

Verso le 21:30, sul palco illuminato da luci viola e blu, entrano i Soundgarden, accolti dal boato della folla (stimata sulle 5.000 presenze). Introdotti dalla memorabile Searching With My Good Eye Closed, tratta da Badmotofinger, i quattro di Seattle appaiono subito in ottima forma: sono passati 16 anni dalla loro ultima esibizione in Italia, ma pare che il tempo si sia quasi fermato. Certo, c’è qualche capello bianco in più sulla testa di Kim Thayil e qualche chilo in più addosso a Ben Shepherd, ma vedere un Chris Cornell in così splendida forma fisica e artistica e un Matt Cameron gran maestro cerimoniere del sound, è una festa per gli occhi e per le orecchie. Dopo Spoonman la band snocciola con assoluta scioltezza pezzi dalla prima produzione come la potente Gun, il loro primo singolo per l’etichetta Sub Pop Hunted Down e le epiche Loud Love e Ugly Truth. C’è spazio anche per la nuova Live To Rise, incisa per la colonna sonora del film The Avengers, pezzo certamente non memorabile, ma che in territorio live guadagna in spessore e potenza.

Il resto è tutto un susseguirsi di emozioni: Fell On Black Days, l’apocalittica Blow Up The Outside World (sostenuta dal coro del pubblico, che sembra non finire mai) e una serie di classici come Outshined, Rusty Cage, My Wave e la generazionale Black Hole Sun. Menzioni speciali per le rese perfette di The Day I Tried To Live, Superunknown (che tiro, Cameron, che tiro!) e la superlativa 4th Of July. Solo qualche istante di pausa e la band torna sul palco per un sostenutissimo encore finale con Jesus Christ Pose (anche qui da segnalare un Matt Cameron in grande spolvero) e Slaves And Bulldozers, che chiudono il concerto.

I dubbi sulla voce di Cornell e sulla sua capacità di cantare in modo ancora dignitoso i vecchi pezzi della sua band madre sono spazzati via da una performance davvero buona, dove la sezione ritmica (il vero fulcro della band) è apparsa perfetta – l’alchimia tra Cameron e Shepherd è ancora intatta e ai massimi livelli – mentre Kim Thayil ha impreziosito ogni pezzo suonato.

Dicevamo prima, “pare che il tempo di sia quasi fermato”. Quel “quasi” vuole sottolineare come rispetto alle incerte performance dell’ultimo triennio di attività della band, questa reunion ci riconsegni dei Soundgarden più in forma che mai, almeno dal vivo. La domanda può sembrare scontata: “Perché allora si sono divisi nel 1997?”. Avrebbero potuto continuare, prendersi un periodo di riposo, pubblicare dischi solisti e side projects, continuando a suonare insieme, ma si entrerebbe nel campo dell’ipotetico e questo non ci interessa. Interessa molto di più aver visto una band davvero in forma rientrare dalla porta principale nell’olimpo dei grandi nomi del rock. L’altra domanda che tutti si fanno è: come suonerà il nuovo disco? Cosa ci riserverà il loro futuro? Domande alle quali, al momento, nessuno può rispondere. Non resta che gioire per questo ritorno. Bentornati Soundgarden. Ci siete mancati, bastardi.

KING ANIMAL – Il disco del ritorno dopo sedici anni…

Onestamente, chi pensava che “King Animal” potesse rivelarsi un gran disco?

Dopo lo split amichevole dei Soundgarden nel 1997, il frontman Chris Cornell ha portato avanti una carriera solista piuttosto eterogenea e a fasi alterne, che ha messo in mostra sia le sue grandi potenzialità di cantautore (“Euphoria Morning”, “Songbook”), sia il suo volere essere rocker ‘a tutti i costi’ (l’ottimo primo disco degli Audioslave, i freddi e piatti lavori successivi) sia, più in generale, la propensione a mettersi in gioco al 100%, arrivando persino ad alienarsi una parte dei suoi fan (“Scream”). La sensazione era che Cornell, avendo preso fin troppa dimestichezza a giocare in proprio, potesse aver esaurito la sua vena compositiva coi Soundgarden nel 1997, nonostante già i primi show di reunion nel 2010 avessero confermato la sua intatta capacità di interpretare più che degnamente il vecchio repertorio della band. Di Kim Thayil negli anni si erano praticamente perse le tracce; si mormorava stesse selezionando b-sides e inediti per un futuro box set dedicato ai Soundgarden. Certo, ha suonato con Jello Biafra nei The No WTO Combo e ha partecipato a qualche disco di colleghi, ma sostanzialmente come chitarrista risultava inattivo. Ben Shepherd, dopo aver collaborato a fine anni Novanta con Mark Lanegan e aver completato il secondo disco degli Hater (garage band messa su nel 1993 con l’amico e bandmate Matt Cameron) era praticamente sparito dalla circolazione. Si era persino diffusa la voce che fosse diventato un homeless (voce negata da lui stesso in un’intervista, anche se i dubbi rimangono). Matt Cameron è quello che tra i vecchi compagni ha mantenuto un profilo più alto, essendo entrato a far parte dei Pearl Jam subito dopo lo split dei Soundgarden. Il suo apporto è stato fondamentale nel ridefinire il live sound dei Pearl Jam, band in cui però le sue eccezionali abilità di batterista spesso sono finite in secondo piano a favore di rock songs più ‘classiche’ della band, non imparentate nemmeno lontanamente con la sua band madre (ad eccezione della cupa e interessante “In The Moonlight” e della mediocre “Evacuation” da lui scritte). Il suo contributo in fase compositiva coi Pearl Jam rimane comunque tutt’altro che memorabile (è d’obbligo ricordare “The Fixer”, il singolo apripista dell’ultimo disco in studio dei Pearl Jam, che con i suoi sapori pop ha fatto sollevare più di un sopracciglio a parecchi fan della band).

La band, riformata nel 2010, negli ultimi due anni ha avuto modo di tornare a rodarsi dal vivo tra America, Australia ed Europa, confermando l’eccellente stato di forma di tutti i componenti. Anzi, spesso sono apparsi persino migliori di come ce li si ricordava nel biennio 1995/1996. Più maturi, ancora più confidenti con i loro strumenti e Cornell con la propria voce. Ma per quanto riguardava una possibile nuova fase creativa, quante possibilità c’erano che il primo disco in studio da 16 anni potesse risultare interessante, vivo, credibile?

“Eyelid’s Mouth”, il penultimo pezzo del disco ma il primo composto dopo la reunion nell’autunno del 2010, è quello che ha fatto pensare a Cornell & Co che ci poteva essere un futuro per la band. Una volta provata in studio, con l’aiuto di Mike McCready dei Pearl Jam alla chitarra e del fidato producer Adam Kasper, è diventata ufficialmente la prima canzone composta dai Soundgarden dal 1996. Nelle prime battute ricorda la vecchia “Little Joe” dal primo storico EP della band, “Screaming Life”, pubblicato 25 anni fa. L’atmosfera dark che permea il pezzo è imparentata anche con la cavalcata che chiudeva “Superunknown”, la memorabile “Like Suicide” (non raggiungendone ovviamente i picchi, ma rappresenta senz’altro un ottimo inizio).
E’ però “Been Away Too Long” il pezzo che apre l’album, nonché il singolo scelto per presentare “King Animal”. Più che altro una dichiarazione d’intenti (“Sono stato via troppo tempo”), è un discreto pugno nello stomaco che forse non ci si aspettava dai Soundgarden nel 2012: la ritmica serrata, la voce di Cornell ancora in grado di lanciare pugni al cielo, il testo pregno di metafore care al songbook del riccioluto cantante. Con “Non-State Actor” si assiste alla prima piccola sorpresa del disco, non tanto per la musica (una possente e micidiale hard rock song come solo i Soundgarden sanno fare), quanto per il testo, scritto da Cornell insieme a Thayil, che si scaglia contro i politici colpevoli di non rappresentare più il popolo che li elegge. Il clima no global che si respirava a Seattle sul finire degli anni Novanta e l’orribile presente politico hanno senz’altro contribuito alla nascita di questa canzone. E’ a partire dalla successiva “By Crooked Steps” che questo “King Animal” inizia realmente a colpire nel segno. Cambi di tempo di Cameron, specie sul finale, la voce di Cornell che raggiunge vette che forse non ci si aspettava più da lui, riff grantici di Kim Thayil che scandiscono il groove dell’intero pezzo.
Con “A Thousand Days Before” va persino meglio. La chitarra orientaleggiante del barbuto chitarrista tesse trame degne dei migliori Soundgarden, la voce di Cornell è ispiratissima e il pezzo a momenti ricorda persino “Switch Opens”. Senz’altro uno degli highlight del disco, il primo pezzo di una trilogia di canzoni che rappresentano la parte migliore di “King Animal. Segue “Blood On The Valley Floor”, lontana parente di “Mailman”, che su un riff alla Black Sabbath ad opera di Thayil scandito dal pulsante basso di Shepherd, convince da subito facendo quasi gridare al miracolo. Le metafore usate da Cornell risulteranno particolarmente gradite ai vecchi fan dei Soundgarden. “Bones Of Birds” sono i Soundgarden ai loro massimi livelli. In un atmosfera che più dark non si può, un Cornell reso più maturo dagli anni e dalla paternità, riflette sulla perdita dell’innocenza da parte dei bambini avviati verso l’età adulta. Il pezzo è un mid-tempo in stile “Fell On Black Days” impreziosito dai fraseggi in punta di dita di Thayil che disegnano scenari da fine del mondo – quelli, per intenderci, già sentiti in canzoni come “Blow Up The Outside World”. Da applausi!

“Taree” risale alle sessions di “Down On The Upside”. La musica, ad opera di Shepherd, ricorda infatti le atmosfere della bellissima “Zero Chance”, anch’essa firmata dal bassista. Convince in particolare il finale, molto tosto, con Cornell che ripete il titolo della canzone con tutto il fiato che ha nei polmoni. “Attrition”, testo e musica di Ben Shepherd, è lontana parente di “Bleed Together” (qualcuno se la ricorda? Era la b-side di “Burden In My Hand”) e celebra il mai sopito amore del bassista per la musica punk rock, con cori che potrebbero ricordare i Rolling Stones. Il paragone non è azzardato, qualcuno forse ricorda la cover che i Soundgarden incisero di “Stray Cats Blues”? Un cerchio che si chiude. Si arriva quindi a “Black Saturday”, uno dei momenti più alti di questo “King Animal”. Una traccia che parte come uno dei pezzi solisti di Cornell (“Seasons” oppure le versioni acustiche di alcuni pezzi scritti a suo tempo per gli Audioslave) e che si evolve fino a ricordare brani come “Dusty” o “Burden In My Hand”. Notevoli i fiati che rieccheggiano i fasti di “Room A Thousand Years Wide” che confluiscono in un assolo di chitarra teso e dark come solo Thayil, il Jimmy Page della scuola di Seattle, può regalare. Questa canzone rappresenta senza dubbio il punto più alto raggiunto nell’evoluzione dei Soundgarden dai tempi di “Down On The Upside”. “Halfway There”, che all’inizio ha il feeling di certe canzoni del secondo disco solista di Cornell (“Carry On”), rappresenta un’eccezione in questo disco. E’ un pezzo squisitamente pop, in grado senz’altro di scalare le classifiche. Sul finale, un glorioso cambio di tempo di batteria di Matt Cameron mette comunque le cose in chiaro: quello che stiamo ascoltando è un disco dei Soundgarden. “Worse Dreams” è una contagiosa rock song dove il basso vigoroso di Shepherd sorregge un testo pieno di metafore dark partorito da Cornell. Un pezzo che renderà al massimo in territorio live. “Rowing”, scritta dalla coppia Cornell/Shepherd, chiude nel migliore dei modi questo album. Sembra quasi una rivisitazione di “Earth Died Screaming” di Waits e ciò non può che far piacere in quanto, come prima cosa, Tom è uno degli artisti più temerari di sempre e, secondo, è uno dei personaggi più amati dai due compositori del brano.

Quante volte ci è capitato, negli ultimi anni, di vedere gruppi al massimo della loro creatività artistica nei 90’s riformarsi e pubblicare dischi certamente non degni della loro fama (Smashing Pumpkins, Hole), che nulla aggiungevano a quanto fatto in passato (Alice In Chains) o semplicemente destinati ad essere dimenticati in fretta (Dinosaur Jr). Quante volte? Troppe. Questo “King Animal” si pone invece come una naturale e credibile evoluzione del loro ultimo disco e dimostra quanto la band di Cornell sia ancora in grado non solo di essere creativa come ai vecchi tempi, ma persino di rappresentare un punto di riferimento per chi voglia comporre un vero disco hard rock oggi. Un disco compatto, da ascoltare non tramite patetici streaming sul web, un disco vero, come quelli che si pubblicavano negli anni Novanta e che non ha niente a che spartire con la maggior parte di quelli che vedono la luce in questi anni, dove un disco è un semplice tassello che fa parte del più ampio mosaico remunerativo delle apparizioni live di ogni band ‘giovane’. Inoltre c’è da dire come “King Animal”, a differenza dei vecchi dischi della band, non sbaglia nel minutaggio. L’eccessiva lunghezza di opere come “Superunknown” o “Down On The Upside” ne minava in parte l’ascolto. D’altro canto, pezzi troppo estesi come “Slaves & Bulldozers” non suonavano benissimo in studio (la resa migliore di questo pezzo è infatti dal vivo). In “King Animal”, tredici pezzi per 53 minuti di durata complessiva, dove il pezzo più lungo dura sui cinque minuti, pare che tutto sia calibrato in modo perfetto, correggendo certa verbosità del passato. “King Animal” ha anche messo in chiaro come le contestatissime divagazioni hip hop di Cornell di qualche anno fa siano state il frutto di una scelta magari criticabile ma tutto sommato coraggiosa, fatta non (solo) per soldi (come troppi critici e fan si erano affrettati a gridare), ma per la naturale curiosità artistica di un interprete in grado di comporre ancora ottime canzoni, magari non così oscure come ai tempi di “Superunkown”, ma altrettanto incisive. Kim Thayil, un vero sopravvissuto al terremoto della scena di Seattle, non ha perso nulla dello smalto di un tempo e il detto “quando la classe non è acqua” gli si addice ancora perfettamente. Ben Shepherd, il membro da sempre più in ombra della band ma non meno importante, si riconferma come il bassista più dotato della scuola di Seattle, al pari del collega e amico Jeff Ament. Che dire poi di Matt Cameron? Nei Pearl Jam ha portato in dote la sua enorme classe ed è ormai un componente fondamentale, al pari di un Gossard o di un McCready. Ma qui siamo ad un livello superiore, qui c’è l’anima di Matt Cameron, la conferma della sua grandezza come batterista. La sua assoluta predominanza su ogni altro batterista di questi anni.

“King Animal” è senza dubbio un bel salto nel passato ben ancorato al presente. E rappresenta tutto ciò che si può chiedere ad un disco hard rock nel 2012. Brindiamo, dunque, i Soundgarden sono tornati.

Articoli originariamente apparsi su Il Fatto Quotidiano per gentile concessione di pearljamonline.it – © pearljamonline.it 2012