Intervista ai Pearl Jam
Humo | Novembre 2002

Traduzione a cura di Angpo

Il mio aereo è atterrato con 7 ore di ritardo a Minneapolis, dove avevo una coincidenza per Seattle. È il 10 settembre e mi sono dovuto togliere le scarpe per poter salire a bordo: gli Stati Uniti sembrano essersi trasformati in una moschea.

Nel bar dell’aeroporto io ed il mio collega del giornale di lingua francese “le Soir” siamo bloccati da uno studente ubriaco. Pensa che apparteniamo alla mafia ucraina e che siamo lì per prenderci gioco di “quegli stupidi americani”. Mi chiede tre volte cosa ho nella borsa di plastica. Visto che insiste, gli dico: “Qualcosa che non ha mai preso”. Lui forma una pistola immaginaria con l’indice e il pollice della sua mano e me la punta alla testa. La signora dietro il banco del bar chiama immediatamente due della sicurezza che portano via lo studente. Eccoci qui, fateci divertire (Citazione da SLTS dei Nirvana ndt)

Tutto quello che ho nella mia borsa di plastica è una mappa con degli articoli sui Pearl Jam, con i quali ho appuntamento. Gli articoli mi danno un’idea della testardaggine del gruppo. Hanno combattuto MTV rifiutandosi di fare video. Hanno sfidato Ticketmaster e hanno perso in modo onorevole. Hanno fatto uscire 72 (!) dischi dal vivo e hanno avuto sette (!) CD nella Top 200 di Billboard contemporaneamente.

Anche la musica è rimasta ostinata. Il nuovo disco Riot Act contiene delle canzoni che hanno reminescenze del vecchio grunge, quello di prima che il produttore Butch Vig ci mettesse le mani sopra. Anche le grezze ballate sembrano dire: ascoltateci, ma non adorateci. Mi ricordo quanto Curtney love, durante uno show con le Hole al Lunatheatre a Brussels, urlò a un fan che indossava una maglietta dei Pearl Jam: “Odio i Pearl Jam. Mio marito li odiava, mia figlia li odia e io li odio.” Ma nessuno li odiava così intensamente quanto quel giornalista che il giorno dopo il suicidio di Cobain titolò: “Perché non è stato Eddie Vedder?”

Eccoci! Le interviste vengono fatte nello Studio X, il rifugio dei Pearl Jam nel centro di Seattle. Ogni giornalista prima parla con la sezione ritmica, quindi con i due chitarristi e infine con Eddie Vedder. Faccia a faccia. Tutti riceviamo un Discman con il nuovo album incollato dentro. Per quelli che amano i numeri, io ho avuto il Discman 48.

Un’altra cosa: Riot Act è il primo disco dei Pearl Jam ad uscire dopo la tragedia di Roskilde in cui morirono 9 spettatori.

La Battaglia di Seattle

Matt Cameron viene dai Soundgarden, ma aveva suonato la batteria per i Pearl Jam già prima che si chiamassero così. Jeff Ament è sempre stato nel gruppo, e ha anche avuto una sua band, i Three Fish, un gruppo che suonava con i djembès e faceva muscia spirituale.

Humo: Jeff recentemente hai detto a proposito dei Ramones: “Dopo la morte di Joey ho sentito per la prima volta la tristezza nei suoi testi.”

Jeff: Pensavo che i Ramones fossero un gruppo divertente. Ma dopo la morte di Joey ho cominciato a suonare le sue canzoni in modo acustico, ed è stato solo in quel momento che ho capito quanto erano profondi i loro testi. Alcune canzoni sono fatte di pura disperazione. Puoi sentire quanto fosse solo. Cose abbastanza pesanti.

Matt: Quando suonavo con i Soundgarden eravamo tutti pazzi per i Black Sabbath. Mi ricordo perfettamente la prima volta che li ho sentiti. Avevo sette anni, e mio cugino mi fece sentire un disco che cominciava con il suono della pioggia e una campana e che aveva una strega sulla copertina. Mi spaventò a morte.

Jeff: Nel corso della tua giovinezza ti costruisci delle fondamenta che ti porterai dietro per il resto della vita. Noi ascoltavamo i Led Zeppelin e i Black Sabbath. E ce ne rendiamo conto ora più di quanto non avessimo mai fatto.

Humo: Qualche volta penso di Riot Act: volevano catturare lo spirito del primo grunge, prima che diventasse moda.

Matt: Mmh, penso solo che non abbiamo mai suonato molto in quel modo. Studiavamo le canzoni e poi le registravamo. Se erano registrate bene eravamo soddisfatti. Quando hai 17 anni vuoi ancora fare la musica per mostrarla. Ora io voglio solo servire la canzone. Non voglio più prendere deviazioni, provo a fare tutto nel modo più diretto possibile.

Humo: Invecchiando si tende a evitare le Hit parade sempre più, ma ultimamente in un negozio ho sentito “Dancing Barefoot” di Patti Smith in una versione house. Quand’è stata l’ultima volta che vi siete confrontati con questo tipo di blasfemità musicali?

Matt: Ogni volta che sento una canzone dei Rolling Stones in una pubblicità penso: “Lasciatelo fare a Moby”. Le canzoni degli Stones andrebbero protette come i monumenti.

Jeff: E così dovrebbe essere per le canzoni degli Who. Ho letto recentemente un’intervista con Pete Townshend che diceva: “Le canzoni sono mie, e le vendo a chi mi pare”. Ma non penso che lui abbia il diritto di fare questo. Noi abbiamo suonato “Baba O’Reily” per la prima volta cinque anni fa; era come se fossimo di nuovo seduti nelle nostre stanze da ragazzi. Ma ora non posso più suonare quella canzone perché la sento sempre nelle pubblicità. Gli Who non sono più sacri, ed è un gran peccato.

Humo: Quello che per gli Who è stato “Quadrophenia” per voi è stato “Singles”, sfortunatamente. Ma quando usci “Quadrophenia” gli ultimi Mods e Rockers erano spariti da secoli, mentre “Singles” è uscito al picco della vostra fama.

Jeff: Una correzione: puoi dire quello che vuoi di “Singles” ma è stato fatto prima che esplodessimo. Ma preferirei che filmassero un concerto. Il rock è il rock. I film sono film.

Matt: A tutti noi è piaciuto molto il documentario “Hype”. Potresti dire che la scena musicale di Seattle non fosse molto diversa da quella di Austin, di Boston o di Minneapolis: queste città non erano nient’altro che puntini sulla mappa del rock mondiale. Ma poi è arrivato Kurt, il nostro personale “ritratto di un giovane artista”, e improvvisamente tutti gli occhi furono puntati su Seattle.

Humo: Qual è il tributo a Kurt Cobain che vi è piaciuto di più?

Jeff: “Sleeps with Angels” di Neil Young. E ovviamente la stessa musica dei Nirvana. Mi piace particolarmente “Bleach”. La grezza forza dei demo.

Matt: Penso che “You know you’re Right” sia grandiosa. Farà andare la gente fuori di testa.

Operazione “Non Imprigionateci”

Humo: I Pearl Jam sono un gruppo con dei principi: avete combattuto contro Ticketmaster, vi siete rifiutati di fare video, avete organizzato un progetto “salvate il vinile”…
Quali di queste battaglie ha prodotto i migliori risultati?

Jeff: È stata una battaglia, l’operazione “Non Imprigionateci”. Se la gente comincia a fare delle regole che noi dobbiamo seguire ci irrigidiamo. Qualcuno ci può chiamare ingenui, ma io questo non lo capisco molto. Il rock non è sempre stato ribellione?
La battaglia contro Ticketmaster, che abusava della sua posizione di monopolio, è stata la più frustrante secondo me. Il gruppo non era insieme: non eravamo in grado di formare un fronte unito per difenderci. Quando Stone Gossard e io eravamo in tribunale non sapevamo neppure dove si trovasse Eddie. Era tutto molto confuso. Volevamo fare concerti in arene e festival che Ticketmaster non controllasse, ma ha funzionato solo alcune volte.

Humo: Peter Buck dei R.E.M. a detto a proposito di questo: “Non distruggerò il mio gruppo solo perché il mondo non è perfetto.”

Jeff: Ovviamente aveva ragione. E noi avremmo dovuto saperlo. Erano dolori di crescita, e noi abbiamo imparato da quelli. Ma ogni tanto penso: “Se non avessimo fatto nulla forse non saremo più insieme.”
Ora penso meno a Ticketmaster in termini di bianco o nero, ma la gente ora è certamente più consapevole di dove vanno a finire i loro soldi. E i nostri fan ci hanno sempre dato molto supporto. Nei pochi concerti che abbiamo organizzato noi, gli spettatori sono dovuti stare in coda per un’ora sotto la pioggia perché il sistema della biglietteria era crollato, e nonostante questo hanno continuato ad amarci. (Ride)

Humo: Quale testo di Eddie Vedder vi piace di più in Riot Act?

Jeff (senza esitazioni): “The sorrow grows bigger when the sorrow’s denied,
I only know my mind, I am mine” (Il dolore aumenta quando si nega il dolore, conosco solo la mia testa, io mi appartengo), da “I Am Mine”.

Humo: Sarete presto in tour. Siete ancora eccitati come nel 1992?

Jeff: Penso che due ore e mezza di spettacolo sia il massimo possibile, ma ora abbiamo 15 canzoni in più (Ride). Devo veramente sforzarmi per suonare così tanto. Quando posso vado a fare surf durante il tour. Oppure a visitare un museo. Sta tutto nell’imparare a misurare le dosi.

Matt: Esattamente. Non abbiamo più 23 anni.

Lingua lunga

Quando i due chitarristi si siedono di fronte a noi, sono o stanchi (Mike McCready) o fuori (Stone Gossard).

Humo: Mike, nel bagno c’è una foto del tuo primo gruppo: i Rockfords. Il tuo taglio di capelli ci ha fatto temere per il peggio.

Mike (alzandosi): Hey, un po’ di rispetto per favore. Non solo adoravo le prime band di capelloni: ero un fan dei Kiss! Quando avevo undici anni prendevo già lezioni di chitarra per riuscire a suonare le loro canzoni. Sfortunatamente la mia lingua non era lunga abbastanza.

Stone: Non poteva permettersi di avere un’operazione. E poi non aveva abbastanza peli sul petto.

Humo: Stone, come hai cominciato?

Stone: Non ero affatto un esperto di musica, ma ho cominciato ad ascoltare il punk un po’ prima degli altri. Ho cercato di entrare in ogni tipo di gruppo leccando i piedi a tutti. (Ride) Avrei fatto qualunque cosa per potermi esibire. A scuola, un sacco di gente suonava la chitarra, ed erano tutti molto più bravi di me. Io non sapevo suonare, ma trovavo questo divertente, e, come si è dimostrato vero più tardi, era così che doveva essere. Specialmente quando ho scoperto i Ramones (Ride).

Mike: Non mi sono mai piaciuti i Ramones.

Humo: Jeff Ament dice che i testi di Joey sono “profondi”.

Stone: Digli di lasciare Joey in pace (Ride)

Humo: Vi farò la stessa domanda che ho fatto a Jeff: quale battaglia vi ha dato più soddisfazioni?

Mike: Per me è stata la lotta per liberarmi della dipendenza dall’alcol.

Stone: Non sono mai stato capace di prendere la cosa seriamente, almeno non seriamente come Eddie.

Humo: Qual è il testo di Riot Act che vi tocca più profondamente?

Stone: In “Green disease”, Ed canta: “Like weeds with big leaves, stealing light from what’s beneath”. Siamo tutti un po’ come degli alberi che rubano la luce ai cespugli che stanno sotto. Siamo fatti così.

Mike: “Thumbing My Way” è la canzone più triste dell’album. È qualcosa da cantare quando sei completamente depresso, mentre passeggi nella natura.

Stone: Tutti i testi di Riot Act sono molto personali. In ogni canzone Ed canta usando la prima persona. Viene davvero da lui personalemnte.

Mike: È vero. Io sono passato dal metal al blues. Quello a cui guardo ora è B.B. King e lui mi dice: “Rallenta amico” e “Non devi fare tutto da solo”.

Humo: Qual è la peggior canzone rock di tutti i tempi?

Stone: : “We built this city on rock-‘n-roll”

Mike: Sono d’accordo

Humo: Qual è l’immagine di Seattle che vi è rimasta più impressa?

Stone: Mi ricordo un momento fantastico del film “Hype!”. Due della Sub Pop (prima etichetta di Soundgarden Nirvana Green River ecc) indicano lo skyline di Seattle e dicono: “Prima del grunge non c’era nulla qui, e guardate adesso!.” Dice tutto.

Una preghiera per Roskilde

I Pearl Jam senza Eddie Vedder sono come… mmm i Nirvana senza Kurt Cobain. Vedder è rimasto l’unico membro del gruppo che continua a rifiutare interviste televisive. È l’unico con una stanza separata qui nello studio, l’unico che brucia incenso, e ha un grosso telo con il simbolo dell’Ohm appeso dietro di lui. Durante l’intervista ha di fronte una vecchia macchina da scrivere (nel caso dovesse pensare qualcosa di geniale). Ma certamente non è così senza senso dell’umorismo, paranoico e impacciato come qualche volta viene descritto. Ne avevamo già avuto un assaggio quando leggemmo una delle sue barzellette in una vecchia intervista:
Quanti membri dei Pearl Jam ci volgiono per cambiare una lampadina?
Cambiare? I Pearl Jam cambiano? Mai! Per nessuno! È chiaro?

Humo: Gli altri membri del gruppo hanno suonato al Pukkelpop Festival a Hasselt con Neil Young, e Matt Cameron ha suonato là con i Soundgarden, ma tu non sei mai stato in Belgio.

Eddie: Non ce l’ho mai fatta. Per due volte. (I Pearl Jam dovevano suonare al Festival di Wercher due volte, ma cancellarono le date nel 1992 a causa dei problemi di voce di Eddie e nel 2000 per la tragedia di Roskilde). Ma ho una notizia per te. Proveremo a cominciare il tour europeo dal Belgio. Non è molto ma è già qualcosa.

Humo: È molto gentile da parte tua! Sull’album “Ball-Hog or Tugboat?” del guru del grunge Mike Watt hai cantato “The kids of today should defend themselves against the seventies” (I ragazzi di oggi devono difendersi dagli anni ’70). Cosa volevi dire?

Eddie: Me l’ha fatto cantare Mike Watt. Penso che volesse dire che i ragazzi avrebbero dovuto evitare il rock da stadio. E lo stesso avrebbero dovuto fare i Pearl Jam (ride). Mike viene da un mondo diverso, un mondo fatto di piccoli locali, biglietti economici, 45 concerti in 46 giorni. La scuola del “devi guardagnarti gli applausi ogni giorno,” si può dire. In quel mondo prendi le scale invece dell’ascensore.
Con “Ten” abbiamo avuto subito un successo mondiale: da allora non abbiamo fatto altro che ritirarci e resistere. Almeno è così che la vedo io. Dal ‘92 continuiamo a chiederci: “Quanto rimane della nostra integrità? Come facciamo a essere sicuri di non impazzire?”
Sono anche stato in tour con Mike Watt. Indossavo una parrucca per non farmi riconoscere. Cosa puoi farci?

Humo: Nella nuova “Love Boat Captain” canti: “Lost nine friends we’lle never know, two years ago today” (Abbiamo perso nove amici che non conosceremo mai, esattamente due anni fa). Parla ovviamente della tragedia di Roskilde.

Eddie: Avrei anche potuto nascondere il messaggio, ma ho pensato: perché non dirlo a lettere maiuscole? È davvero una bella sensazione quando la suoniamo. Penso a Roskilde ogni giorno, così potevo anche essere chiaro. Quella canzone è come una preghiera.

Patrioti ciechi

Nel vostro maggior successo, “Alive”, parlavi di tuo padre, di quello che hai scoperto non essere il tuo vero padre da ragazzo. Anche quei versi erano molto diretti.

Eddie: È vero. Ma la differenza maggiore è che quando ho scritto quei versi pensavo che nessuno avrebbe mai ascoltato quel maledetto demo. Il gruppo aveva scritto la musica a Seattle e io scrissi il testo a San Diego, dove vivevo allora. Cantai alcune canzoni, una delle quali era “Alive”, e ho spedito indietro il nastro.
Ma hai ragione, essere diretto è il mio stile. Non sono Michael Stipe.
Di recente ho visto il film “Dogtown and Z-Boys” sui pionieri dello skateboard nei primi anni settanta. Mi ha fatto venire gli incubi. Ho visto di nuovo le immagine della mia adolescenza: la spiaggia, il surf, i miei capelli biondi, e immediatamente dopo mia madre che mi dice chi era mio padre e poi la famiglia che esplode. Quello è stato il periodo in cui ho deciso che nessuno mi avrebbe più detto cosa avrei dovuto fare. Volevo il controllo completo della mia vita, e ho cominciato a lavorare duramente per ottenerlo.

Humo: Cos’è che ti attrae così tanto del surf?

Eddie: Nell’acqua mi sento in contatto con il mondo. Fare surf è un’esperienza molto spirituale: le onde che arrivano da 2000 chilometri hanno fatto tutta quella strada per infrangersi sulla costa, e tu ci sei sopra.
Non facevo nient’altro che surf, e nel ’94 ho ricominciato, come una specie di terapia. È bello realizzare di aver abbastanza soldi per poter fare surf in tutto il mondo e non perché hai imbrogliato qualcuno con, per esempio, della contabilità creativa (Ride).

Humo: Vedi anche la vita ed i Pearl Jam come una surfata?

Eddie: Forse lo faccio. È stata una cavalcata piuttosto lunga. Canto gli oceani ogni tanto, e non è una coincidenza. Mi piace comparare i Pearl Jam, e la vita in generale, a una vecchia macchina. Ne hai solo una, e devi solo star a guardare quanto dura. Devi controllarla costantemente, e imparare a ripararla da solo.

Humo: Non hai mai dato il tuo successo per scontato. Ti sei anche nascosto per un certo tempo – di questo parla la “In Hiding”. Come guardi ora a quei tempi?

Eddie: È stato un periodo molto difficile. Quando incontravo qualcuno, prima di tutto dovevo capire se le sue intenzioni erano oneste, mi sentivo come un poliziotto. E questo non è salutare, non puoi continuare a farlo. È per questo che ho mollato.

Humo: È vero che una volta hai vinto una scommessa con Al Jourgensen dei Ministry, bevendo qualcosa che aveva preparato il Jim Rose Circus, qualcosa di strano che usciva da un tubo?

Eddie: (ride) Sì. Non volevo perdere con Al. E ancora oggi non so cosa mi era preso. Erano periodi strani. Saltavo dai balconi.

Humo: Ti ho visto tuffarti nella folla da un traliccio al PinkPop in Olanda.

Eddie: Oh, quello è stato solo l’inizio. Ho fatto di peggio dopo. Mi sentivo invincibile. Avevamo molto successo, ma in un modo che non mi soddisfaceva completamente. Volevo sentire di più. Dolore probabilmente. Ora so che allora avevo paura di vivere. In più era impossibile continuare a tuffarsi. La folla vuole vedere il sangue, vogliono tagliarti un braccio e farlo roteare. Questo è un problema per un artista. Se fai quattro concerti così ti ritrovi senza arti (ride).

Humo: Ti sei mai visto nei panni di Zach de la Rocha, il capo propaganda dei RATM, o essere un cantante e un musicista è abbastanza per te?

Eddie: Domanda difficile. Ho lavorato per Ralph Nader, che era il terzo candidato alla presidenza dopo Bush e Gore due anni fa. Nessuno si ricorda di lui, perché è uno dei pochi politici americani che non sono burattini dell’industria petrolifera. Mi è sempre piaciuto parlare di lui nelle interviste – se solo il resto del mondo sapesse che non tutti gli americani sono patrioti ciechi.

Humo: Visto che l’ha menzionato, in che tipo di paese vivi?

Eddie: In un paese dove puoi comprare bandiere americane ventiquattr’ore al giorno – anche se poi sono state fatte in Cina (ride). Sono tempi strani ed è un paese bizzarro. Penso che noi americani dovremmo cominciare a scusarci col resto del mondo.

Coraggio e sacrificio

Humo: Una volta hai detto a Chris Cornell dei Soundgarden che non potevi sentire i tuoi dischi quando erano usciti. Ci hai provato con Riot Act?

Eddie: No e penso ancora di non poterlo fare. Posso farlo se sono sbronzo. Ultimamente mi sono sbronzato a casa di un amico, ho messo su “Bugs”, la peggior canzone che abbia mai fatto. Piangevo ridendo.

Humo: Che atto di resistenza ha dato più risultati per i Pearl Jam?. E non puoi rispondermi con “Siamo riusciti a rimanere insieme”.

Eddie (lungo silenzio) e la mia risposta è: Non sempre le nostre azioni sono state giuste.
E anche: che siamo riusciti a continuare a vendere dischi. Qualche volta penso che abbiamo creato coi nostri fan un legame di fiducia. Fanno striscioni che dicono “Per favore non fate video”. Che sono piuttosto diversi da quelli che ha Bon Jovi: lui ha “Scopami Jon”. Abbiamo davvero bisogno del supporto del pubblico, perché facciamo delle cose che in genere i gruppi non fanno. Il pubblico ci dà la sensazione che stiamo facendo la cosa giusta. Tutto questo suona molto più pretenzioso di quanto non sia in realtà. Vogliamo solo continuare a fare le nostre cose.

Humo: Qual è l’incontro più importante che hai fatto in questi undici anni nei Pearl Jam?

Eddie: Quando ho incontrato Howard Zinn, un professore di storia. In breve quello che dice è questo: gli esseri umani tendono a pensare che tutto è fissato per sempre, ma la storia ci dice che sbagliamo. Per esempio. Una dittatura, considerata invincibile, può cadere in brevissimo periodo. Per questo secondo Zinn non è ingenuo o romanticamente senza speranza sperare che le cose possano andare meglio, anche in questi momenti bui. La storia umana è fatta di crudeltà, ma anche di coraggio e sacrificio. Il futuro è adesso, perché il futuro è una serie infinita di adesso.

Humo: Qual è la canzone più triste di Riot Act?
Eddie: “I Am Mine”, senza dubbio. È stata scritta in una stanza di albergo, appena prima del il nostro primo concerto dopo la tragedia di Roskilde.

Humo: Nel 1979 11 persone furono schiacciate durante un concerto degli Who a Cincinnati. Ti è di qualche conforto sapere che quello che è successo a loro e a voi è successo perché i fan volevano vedervi a tutti i costi? Mi spiego: non penso che incontri questo tipo amore incondizionato per Mariah Carey.

Eddie: È curioso che citi questo esempio. Pete Townshend e Roger Daltrey mi chiamarono il giorno stesso di Roskilde. Altri musicisti mi hanno chiamato, ma quella che ricordo meglio è la reazione di Pete. Stavo combattendo con il concetto di karma quel giorno, cercavo di capire perché fosse successo proprio a noi, tra tutti, noi che abbiamo sempre preso tutte le precauzioni per fare in modo che non accadesse una cosa simile. Pete mi disse: “Forse è accaduto a voi perché voi siete in grado di assorbirlo. Pensa se fosse successo agli Oasis.”

Di fronte all’entrata dello Studio X, c’è una bella Plymouth Fury rossa, una macchina che ha bisogno di molte attenzioni. Possa durare ancora a lungo, pensiamo mentre ci incamminiamo verso il tramonto.

 

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I Pearl Jam vogliono essere di nuovo amati
By Steve Morse
Boston Globe | 3 Novembre 2002

Dopo un decennio un po’ sottotono, la band ritorna con Riot Act alle sue radici rock.

Traduzione a cura di Alvaro

NEW YORK – Nell’ultimo decennio sembra che i Pearl Jam abbiano provato con tutte le forze a restare in ombra. Una cosa non facile per degli artisti premiati più volte con dischi di platino.

Non sono scomparsi. Ma questi sopravvissuti di Seattle, che hanno trovato il modo di scampare alle tragedie capitate a Nirvana e Alice in Chains, si sono avventurati in un percorso sempre più sperimentale e costantemente in contratsto con l’industria discografica.

Si sono rifiutati di realizzare video in stile MTV, hanno tentato di evitare la distribuzione dei biglietti di Ticketmaster e hanno cercato di suonare in posti non tradizionali. Qualche volta hanno pubblicato singoli di scarso fascino commerciale, come l’insolita “Who You Are” nel 1996 (“Abbiamo provato a destabilizzare il mercato discografico con quella,” ha dichiarato Eddie Vedder in una recente intervista).

Hanno infine realizzato per i loro ultimi tre album, “No Code”, “Yield” e “Binaural”, una musica indulgente, intermedia, di attesa.

Anche i titoli degli album indicavano una band in ritirata.

Sono stati ricompensati con un calo delle vendite fino a 700.000 copie per “Binaural”. Non male per un gruppo rock medio, ma lontanissimo da i quasi 9 milioni di copie del loro album di debutto,”Ten”, vendute all’inizio degli anni ’90.

Ora arriva ”Riot Act,” il nuovo disco che mostra un recupero – e con orgoglio, almeno della potenza che li innalzò al verticedelle vendite dei gruppi rock americani degli anni ’90. In uscita il 12 Novembre, il disco manda un vigoroso messaggio hard rock a tutti quelli che pensavano che i Pearl Jam fossero finiti. Ai fan dovrebbe piacere, le radio sembrano già felici (il singolo “I Am Mine” è già un gran successo), e la tempistica è perfetta, perché il gruppo, come un atleta professionista, è all’ultimo anno di contratto discografico. La loro etichetta, la Epic Records, dovrà rinnovare il contratto con il gruppo o lo perderà dopo questo disco.

C’è anche da aspettarsi qualche grossa richiesta sul nuovo contratto discografico dei Pearl Jam. “Vogliamo una fetta più grossa della torta, perché al momento ne prendiamo una fettina molto piccola”, dichiara il bassista Jeff Ament.

Lui e i suoi compagni stanno parlando al Soho Grand Hotel di Manhattan, dove hanno occupato parecchie suite (la deduzione è che la Epic li stia trattando bene nella speranza di prolungare il contratto).

Che contrasto tra l’appartamento di lusso e il duro rock’n’roll da strada del nuovo album, che per la prima volta dopo anni ritrova la band fortemente impegnata a recuperare le sue radici di Seattle basate su ruvide chitarre.

“È il disco con il suono più live che abbiamo mai realizzato in studio”, dice Eddie Vedder, seduto su un balcone, accendendosi una sigaretta e prendendosi una pausa dalla lettura del suo giornale. “Molte canzoni sono state registrate in un’unica take.”

È un grido rinnovato per la credibilità del rock che era andata persa e al tempo stesso una riaffermazione dell’idealismo che ha contrassegnato il miglior lavoro della band. Come l’emozionante e baritonale Vedder canta nel nuovo singolo: ”There’s no need to hide/ We’re safe tonight.” (“Non c’è bisogno di nascondersi/ Siamo al sicuro questa notte.”).
In un altro punto canta: ”There’s just one word I believe in and it’s love.” (“C’è solo una parola in cui credo ed è l’amore.”)

”Riot Act” non è solo l’ultimo capitolo dalla band che non ha mai fatto il tutto esaurito (avete mai sentito una canzone dei Pearl Jam in uno spot TV?) ma una potente affermazione di ritorno. Il titolo dell’album implica “agiamo insieme” dice Ament. E, soprattutto, Vedder è di nuovo al suo posto. Piange le ingiustizie del mondo, fa a fette il presidente (la canzone “Bu$hleaguer” non sarà un successo alla Casa Bianca), lamenta la tristezza dell’11 settembre, eppure trova speranza in canzoni come “Ghost” e “Thumbing My Way,” con la frase, ”No matter how cold the winter, there’s a springtime ahead.” (“Non importa quanto è freddo l’inverno, c’è una primavera in vista.”

“Eddie ha una vera coscienza sociale, è contro la guerra e l’intolleranza, per questo abbiamo molto in comune,” dice Howard Zinn, l’emerito professore della Boston University, che è stato in giro con Vedder e ha anche assistito a una sessione di registrazione presso lo Studio X di Seattle. Vedder in cambio ha letto il libro di Zinn, ”A People’s History of the United States” e lo considera la sua prima influenza sui testi di alcune sue nuove canzoni di ragionata protesta.

Soprattutto, i Pearl Jam hanno mantenuto l’etica punk del prodotto fatto in casa (il nuovo album è in parte dedicato alla legenda punk Dee Dee Ramone). La band continua ad avere totale controllo in studio e supervisiona il progetto anche grafico dell’album. Inoltre con gesto radicale (e con l’aiuto della sua etichetta), ha pubblicato i bootleg dell’ultimo tour. I Pearl Jam hanno realizzato i CD di 40 concerti vendendo tra le 25.000 e le 30.000 copie ciascuno, totalizzando più di un milione di copie complessive. I fan più accaniti dei Pearl Jam erano in paradiso.

I Pearl Jam possono essere simboli dell’idealismo rock, ma capiscono che la musica è un business. “Non abbiamo abitudini di acquisto che si accordano al tipico sfarzo del mondo dello spettacolo,” dice il chitarrista Stone Gossard. “Ma allo stesso tempo siamo una band che vuole guadagnare soldi. E gli affari sono una parte dell’equazione in cui ci troviamo. Non stiamo cercando di rifiutare il business, piuttosto cerchiamo di fissare dei parametri, come la quantità del tempo da dedicare ai media e cosa sei disposto a fare pur di vendere il tuo disco. Credo che siamo già abbastanza felici di quello che abbiamo ottenuto finora.”

La maturità della band sta ovviamente crescendo e questa è la ragione chiave della sopravvivenza dei Pearl Jam.

“Siamo tutti sui 36 anni,” dice Gossard. “C’è un’evoluzione naturale della gente che supera i 30, specialmente se sei in un gruppo per così lungo tempo. Credo che abbiamo lasciato andare molte cose. Siamo cresciuti per accettare le personalità di ognuno di noi e per apprezzare alcune differenze. Credo proprio che siamo più equilibrati emotivamente rispetto alle interazioni quotidiane che abbiamo tra di noi. Credo sia un vantaggio per il proprio stile di vita. C’è stato un periodo in cui eravamo tutti ubriachi fradici e fuori controllo.

A dispetto della loro mancanza di interesse nella creazione dell’immagine, la combinazione dei Pearl Jam non è mai stata così compatta. È stata accentuata dal nuovo batterista Matt Cameron (ex Soundgarden) e dal recupero del chitarrista Mike McCready, che è sobrio e disintossicato da quasi tre anni. I Pearl Jam sanno di essere stati fortunati, specialmente se guardano indietro ai processi autodistruttivi di Kurt Cobain dei Nirvana (suicidio) e Layne Staley degli Alice in Chains (overdose di eroina).

“La morte di Layne mi ha fatto amare molto di più la vita,” dice McCready, che realizzò con Staley un disco nel progetto parallelo Mad Season. “Non l’avevo più sentito negli ultimi tre o quattro anni. Avevo l’impressione che sarebbe morto, ma non sapevo quando. Era un ragazzo dal cuore d’oro. ma era diventato un vero recluso. Non sono rimasto scioccato dalla sua morte, ma mi ha fatto riflettere sul mio problema dieci volte di più di quanto non faccia di solito.”

“Ci rispettiamo moltissimo,” dice Vedder dei suoi compagni, anche per gli amici di Seattle che non hanno permesso ai Pearl Jam di assumere un atteggiamento. “C’è una movimento molto forte a Seattle che non ti permette di montarti troppo la testa. Posso ringraziare specificamente i Mudhoney per questo e per aver smontato in maniera spiritosa l’importanza che io stesso davo al nostro successo. Se chiami la musica ‘forma d’arte’ come scritto intorno al braccio di Mark dei Mudhoney, vuoi che sia rapidamente cancellato quell’osservazione dal disco. Serve a mantenerti umile.

“Inoltre, siamo fortunati a non esserci persi nell’industria dello spettacolo e delle celebrità. Siamo stati svezzati molto presto. Non ci divertivamo. Non c’era niente di veramente concreto.”

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Yield Not 
by Fred Mills
Seattle Weekly | 6 Novembre 2002


I membri dei Pearl Jam rompono il silenzio per parlare dei cambiamenti, delle sfide e delle motivazioni che stanno dietro la loro unione e la realizzazione del loro ultimo lavoro, Riot Act.

Traduzione a cura di Alvaro

Dove eravate nel ’92? Se siete di Seattle è ovviamente una domanda ridicola; tutti sanno cosa accadeva in quel periodo. Lasciate l’indagine a curiosi stranieri come me. Ora, io non ho mai messo piede a Seattle. In effetti la mia massima esperienza con Seattle si riduce alla visione in un oscuro cinema, durante la proiezione del film “Singles” di Cameron Crowe o forse del terribile strappalacrime con Tom Hanks e Meg Ryan. Ma nel 1992, poco dopo il debutto dei Pearl Jam, mentre Ten scalava fino al secondo posto le classifiche di Billboard dopo un anno esatto dalla sua pubblicazione dell’ottobre ’91, lavoravo in un negozio di dischi a Tucson, Arizona. E sono stato testimone dell’impatto che il successo enorme del gruppo – contemporaneo all’ascesa dei Nirvana e dei Soungarden in quello che fu definito il suono di Seattle – ebbe sulla coscienza musicale statunitense.

Oggigiorno, l’immagine mentale “le brigate dei ragazzini grunge” che al negozio usavamo per riferirci dispregiativamente al movimento – tutti abbigliati con camicie di flanella pesante alla Vedder, con shorts sotto il ginocchio e Docs neri o anfibi ai piedi – può sembrare antiquato. Ma anche dopo che i grandi centri commerciali hanno rimpiazzato risicati magazzini con negozi per abbigliamento stile grunge, ho percepito che qualsiasi cosa questi ragazzi stessero provando, era significativa e reale per loro come quando ripensavo alla mia coscienza alla fine degli anni ’60. È stato il primo onesto fenomeno nato da movimenti underground e cresciuto fino a far presa sull’immaginazione dei teenager americani dai giorni di Woodstock – ho sentito la sensazione di déjà vu. Quello e il viscerale impatto sonoro di Ten, un classico assoluto.

Saltiamo al 2000: 6 novembre, dietro il palco alla Key Arena. I Pearl Jam hanno appena concluso il concerto finale del tour di Binaural. Per i membri del gruppo, Eddie Vedder, Stone Gossard, Mike McCready, Jeff Ament e Matt Cameron, sollievo a denti stretti si mischia con la stanchezza fisica. Non è l’emozione classica della fine di un tour. Per il gruppo è come se un’era fosse giunta a conclusione, sia figurativamente (lo spettacolo del 22 ottobre a Las Vegas ha segnato l’anniversario dei dieci anni dal loro primo concerto) sia letteralmente: il 30 giugno 2002 a Roskilde (Copenhagen), ci furono dei feriti, e delle persone morirono, e parte della stampa accusò i Pearl Jam della tragedia.

Vedder ricorda il momento più triste del gruppo dicendo,”I giorni seguenti [Roskilde], eravamo tutti inconsolabili. Sono sicuro che le famiglie e gli amici dovranno vivere con questo sentimento molto più duramente di noi, ma la nostra esperienza personale fu che ci raccogliemmo in posizione fetale di fronte a quello che era accaduto. Pete e Roger degli Who ci chiamarono e la domanda che feci a Pete fu, ‘Cosa pensi che significhi? Perché è accaduto a noi che abbiamo sempre lavorato per garantire la sicurezza di chi viene ai concerti?’ Perché è stata sempre la sicurezza e il rispetto delle persone la prima cosa di cui ci siamo preoccupati. E lui mi rispose: ‘Potrebbe essere successo a te perché sei in grado di sopportarlo.'”

Comunque, non tutti erano sicuri che avrebbero potuto superare la tragedia.

“Quando ancora non eravamo sicuri di cosa fosse accaduto o di come fosse accaduto, credo che tutti noi abbiamo pensato, ‘potrebbe essere l’evento decisivo,'” osserva lo storico manager del gruppo Kelly Curtis. “Tornammo a casa dall’Europa, e circa un mese dopo capimmo che non avremmo dovuto dire addio alla crew e a tutto questo. Così il giorno prima che il tour ripartisse in America, facemmo una grande cena con tutte le persone che erano presenti a Roskilde. Tantissima gente che non avevo più visto da allora. E credo che in qualche modo questo ci unì tutti. Anche il pubblico era molto più rispettoso, come se avessero compreso la situazione. Durante i primi due concerti eravamo molto preoccupati per i ragazzi. Ma vennero insieme e credo che il pubblico ne fosse in qualche modo la ragione. Se ho pensato che si stesse per arrivare allo scioglimento del gruppo? Probabilmente ne ebbi la sensazione subito dopo Roskilde, Ma poi…” La voce di Curtis trema per un secondo, poi aggiunge velocemente, “Sapete, questo gruppo ne ha passate tante insieme.”

“Pensavo agli U2,” dice McCready. “A quanto la stampa ha scritto per il loro ultimo disco, e a come, se avessimo fatto anche solo un decimo di quello che hanno fatto loro, questo avrebbe potuto aiutarci a tornare un po’ nelle attenzioni del pubblico. Non penso che come gruppo diremmo mai [a differenza degli U2], ‘vogliamo essere il gruppo rock più grande del mondo.’ Ma vogliamo essere un gruppo davvero buono. Anche perché sentiamo di aver fatto davvero un buon lavoro con il disco. Siamo entusiasti di parlarne. E così questa volta abbiamo deciso di fare qualcosa in più,” aggiunge ridendo, “rispetto ai nostri standard!”

McCready sta spiegando la ritrovata disponibilità dei Pearl Jam per la stampa. Sebbene una settimana di interviste a Seattle con la stampa internazionale e un’altra settimana a New York con le testate americane non produca lo stesso clamore, dice, dei blitz ininterrotti di Bruce Springsteen sui media della scorsa estate, paragonata ai precedenti lanci degli album dei Pearl Jam, è una cosa decisamente senza precedenti.

D’accordo con McCready, Ament aggiunge: “Gli U2 ci direbbero, ‘Forza ragazzi, dovete tornare con noi sulla cresta dell’onda, far rinascere il rock’n’roll’, ma io non so se sentiamo la stessa cosa, se ci sentiamo così responsabili rispetto alla musica. Ma il clima giusto delle cose rende questo un buon momento per comunicare con le persone, sebbene sia convinto che abbiamo più responsabilità verso noi stessi e la qualità del modo in cui suoniamo della buona musica… quella specie di palla di energia in comune tra noi e il pubblico.”

Comunque le aspettative per il settimo album da studio dei Pearl Jam, Riot Act, sono ancora alte. Senza contare i 72 dischi live e il DVD, questo è il loro primo lavoro negli ultimi due anni. Stone Gossard osserva:”Quando sei mentalmente coinvolto da un disco, hai l’impulso di dire ‘Ok, possiamo affrontare la stampa.’ Sebbene in generale, evitando tonnellate di articoli e restando attaccati alle nostre armi come band, penso che siamo riusciti a guadagnare un pochino di rispetto in più da certe persone che diversamente avrebbero potuto fregarsene di noi. Abbiamo imparato a bilanciare il tempo che passi con i media e quello che usi per fare musica con i tuoi amici. E anche un po’ delle tue priorità personali. Tutto questo aiuta molto. ”

LE PRIORITA’ PERSONALI hanno occupato gran parte del 2001 e del 2002 per i membri dei Pearl Jam. Vedder ha praticato così tanto surf nel Pacifico da diventare residente onorario delle Hawaii, apparendo tra l’altro frequentemente ai concerti della popstar neozelandese Neil Finn e facendo numerosi concerti da solista con l’ukulele. McCready è stato in tour con il suo progetto parallelo, i Rockfords. Ha anche lavorato alla colonna sonora di Vanilla Sky con Nancy Wilson delle Heart. Gossard ha realizzato un disco da solista, Bayleaf, è stato in tour, ha registrato un disco con i Brad e ha suonato il basso nel disco solista in arrivo di Steve Turner dei Mudhoney. Il batterista Cameron ha passato un sacco di tempo come turnista (le cose più rilevanti con Chad Kroeger dei Nickelback sulla canzone “Hero” tema del film Spider-man), è stato anche in tour con Wellwater Cospiracy. E mentre i Three Fish di Ament sono scomparsi da qualche tempo, il bassista ha recentemente registrato con Doug Pinnick dei King’s X.

Così quando a febbraio scorso è venuto il momento di ricominciare le prove con il nuovo materiale del gruppo, le vacanze avevano purificato il palato musicale di ognuno di loro. Le sessioni con il produttore Adam Kasper (Soundgarden, Foo Fighters, Queens of the Stone Age) si sono svolte rapidamente. Cameron osserva: “Penso che abbiamo iniziato questo lavoro abbastanza preparati e focalizzati su quello che volevamo ottenere. Adam è un ragazzo speciale, e ci ha aiutati molto. Il clima era molto rilassato. Siamo andati come fulmini, registrando ogni cosa in circa 4 settimane. Potete ascoltarle come dal vivo, il suono di una band che suona insieme in una stanza, cosa che non capita di sentire spesso di questi tempi. ”

In effetti Riot Act è incredibilmente fluido e spazia enormemente da un punto di vista compositivo, focalizzato e caricato anche tematicamente. Oltre all’approccio fortemente democratico dei testi abbracciato da Pearl Jam (qualcosa che si era cominciata a intravedere negli ultimi due album del gruppo), la presenza del tastierista Kenneth “Boom” Gaspar, conosciuto da Vedder alle Hawaii, ha dato un tono di freschezza alle registrazioni. Le stesse melodie sono al tempo stesso rappresentative degli stati d’animo più diversi del gruppo, da un pop alla Beatles a un funk psichedelico dagli effetti pesanti a un soul molto profondo, i suoni più classici dai tempi di Ten e Vs.

Dall’estrema satira politica degli oscuri Vedder e Gossard in “Bu$hleaguer” al vigoroso blues rock di vecchia scuola di Ament in “1/2 Full” fino all’inno esistenziale stile Who di Vedder di “I Am Mine”, l’album sembra a tratti incredibilmente un ritorno al 1992. E a dispetto delle ricorrenti immagini di perdita, morte e lotta con i tumulti personali, l’album alla fine si mostra trionfante, ribelle e non capriccioso o indeciso.

“Un aspetto dell’essere a proprio agio come artista è permettere a se stessi di sperimentare dei momenti di meditazione su alcuni problemi del mondo,” riflette Gossard. “In questo modo esprimi sentimenti significativi sulla perdita e il dolore che provi alla morte di amici e familiari. E quelle sono immagini forti che si presentano quando stai cercando di scrivere su temi così forti e profondi. Allora sì, ci sono alcune parole pesanti, e sì, trovo il disco abbastanza ribelle sotto molti aspetti: ‘I Am Mine,’ ‘Can’t Keep’ sono canzoni sulla possibilità di guardare la morte in faccia e dire ‘Non mi fai paura!'”

Aggiunge Vedder, “Credo, ad esser sincero, che quando la musica viene fuori in questo modo, in realtà soddisfi noi stessi in qualche modo, capisci? E se c’è una prospettiva di luce alla fine del tunnel, potrebbe essere per ricordarlo al gruppo in un momento successivo. Qualche volta scriviamo cose piene di speranza, quando ci sentiamo così, e questo ci serve per i momenti in cui non abbiamo speranza. Voglio dire, dovendo cantare davanti alla gente, questo ti ricorda la tua personale… filosofia di vita-qualcosa che hai pensato in un giorno positivo e che in quel momento ti viene ricordato.”

TRE DECENNI FA, ci fu l’esplosione ormonale del popolo di Woodstock, la moda dei capelli lunghi, e la musica che sfidò lo status quo venne alimentata in larga parte dagli accorti media interessati a sfruttare una commercializzabile cultura giovanile. È discutibile che-nonostante l’alchimia di talentuosi autori di livello superiore, musicali huevos e un pubblico di ascoltatori, l’ascesa dei Pearl Jam non avrebbe potuto portarli così in alto o così lontano senza l’attenzione che i media comunque hanno dedicato loro.

Dal numero di Rolling Stone del 31 ott. 1991. Articolo della giornalista Kim Neely (futura biografa dei Pearl Jam): “Le canzoni di Ten esplorano l’enorme profondità della realtà di ogni giorno; ci accerchiano con un misticismo e un senso della terra che comunica un’abbagliante gamma di emozioni. A dispetto dei tristi argomenti spesso trattati, sono stranamente positivi. Ten è il tipo di album che ti spinge sopra una montagna per urlare.”

Iperbolico, sì; affrettato, no; utile come strumento di vendita, certamente. Eppure se tu credi alle persone che fanno parte dei Pearl Jam, non c’è mai stata promozione pubblicitaria, marketing, o ricerca delle classifiche. Questa è probabilmente una buona posizione da assumere, dal momento che secondo i numeri recentemente pubblicati su USA Today, le vendite dei Pearl Jam sono generalmente calate di album in album: 8.9 milioni di copie di Ten; 5.8 milioni per Vs. nel 1993; 4.6 milioni per Vitalogy nel 1994; 1.4 milioni di No Code nel 1996; Yield rimase stabilmente a 1.5 milioni nel 1998 e quindi Binaural scese a 714.000.

I cinicida poltrona consapevoli che il contratto dei Pearl Jam con la Epic si conclude dopo Riot Act potrebbero chiedersi se la band non si stia dando così da fare per via del clima del business discografico in cui la forza di contrattazione deriva quasi esclusivamente da uno degli ultimi conteggi di SoundScan.

Secondo il manager Curtis, comunque, l’obiettivo a lungo termine semplicemente ha a che fare con la sopravvivenza. Si spera con vite, amicizie e integrità ancora intatte.

“Quando una band ottiene il vero successo, non so dire quali siano le percentuali, ma scommetto che se guardate indietro, scoprirete che sopravvivere al successo è davvero una cosa difficile,” dice Curtis. “Hai della gente che sta lottando, vivendo insieme, aumenta il numero dei demo e tutto a un tratto devi cominciare a parlare di avvocati, contratti e divisione dei diritti di pubblicazione. I soldi, alcuni li usano in modo autolesionistico. À in gioco l’ego. Ottenere il successo è abbastanza difficile. Superare quel primo traguardo è ancora più difficile, una cosa completamente diversa. Quando ce l’hai fatta, è già una cosa davvero fortunata. Noi ci siamo riusciti.”

” E nonostante abbiamo frustrato i nostri fan non producendo video o concedendo spazio alla stampa e alla TV, abbiamo aiutato il gruppo a restare unito. E avremmo potuto farlo, i promo televisivi, le sponsorizzazioni, tutta quella roba per i soldi. Ma loro hanno detto no a tutto questo. E per quanto riguarda la nostra casa discografica, non siamo mai stati in cerca del grosso anticipo e tutto il resto. Abbiamo solo preteso più controllo e proprietà dei nostri master. Se si affronterà il discorso sul nuovo contratto, non c’è ragione per cui non potremmo restare ancora con la Sony. ”

Riot Act arriverà nei negozi la prossima settimana, e ad eccezione di apparizioni veloci al The Late Show With David Letterman (14 e 15 novembre), i Pearl Jam sembrano assolutamente disinteressati al percorso consono degli album. Sono orgogliosi della musica che hanno registrato, che hanno doverosamente seguito con una serie di interviste (hanno anche girato un video per ‘I Am Mine’ a Settembre al Chop Suey, diretto da James Frost). Ora è fuori dal loro controllo, in ogni caso. Parteciperanno a un grande concerto di beneficenza l’8 dicembre alla Key Arena, ma il tour di Riot Act non inizierà prima della prossima primavera. Due mesi di tempo per rilassarsi.

E d’altra parte, in fin dei conti, questi sono solo dettagli. Ripensando ai miei giorni nel negozio di dischi e ricordando quei ragazzi in camicia di flanella, shorts e anfibi per cui la musica – e i Pearl Jam in particolare – era una parte essenziale e integrante delle loro vite, mi chiedo se per i Pearl Jam ci sia stata un’esperienza analoga che spieghi l’origine della colla che li ha tenuti insieme.

Ricordando un periodo di parecchi anni fa quando ha cominciato a sentirsi sopraffatto, non solo dalle aspettative dei fan, ma anche dalla pressione esercitata sul principale compositore dei testi dei Pearl Jam, Vedder ammette che le cose possono diventare poco invidiabili. “Improvvisamente perdi la scintilla e non è più divertente. Se sei in una band, e fai i tuoi dischi e non ti diverti, allora deve esserci un modo per tornare indietro,” dice.

“Così adesso arriviamo con idee complete, parole, canzoni complete, le mettiamo solo insieme nella pentola comune, e ce n’è più che a sufficienza per andare avanti mantenendo un certo livello. Se ci si fida dei gusti altrui, penso sia una buona cosa. E anche degli istinti. L’istinto con cui ognuno affronta la propria parte. Perché una volta che porti una canzone al gruppo, devi lasciarla andare. È un modo per imparare ad accettare i cambiamenti,” aggiunge ridendo. “È questo, e anche cambiare batterista ogni quattro anni!”

“Tutti noi siamo appassionati di musica a cui piace suonare,” concorda Gossard. “Credo che ognuno in questa band sia fidanzato con la vita; ci muoviamo tutti al nostro ritmo personale, eppure allo stesso ritmo, stiamo vivendo attivamente. Nessuno di noi sta seduto a casa a guardare la TV per ore. Così credo come essere umano, se solo rimani fresco nel tuo impegno con tutti gli altri – tipo ‘questa è casa, questo è il posto a cui voglio tornare, questo mi fa stare bene’ – avendo questo in testa, quando poi torni davvero , sei già carico per fare musica e avviene tutto naturalmente. La salute e la felicità in questa band è palpabile – già soltanto il rispetto e il senso di sicurezza che il gruppo trasmette. Ognuno di noi è cosciente di questo.”

“Se ci fosse un momento in cui ricominciando tutti fossero annoiati e non coinvolti, forse si potrebbe tentare un paio di volte ancora, ma se non funzionasse, beh, sarebbe il momento di darci un taglio,” dice Ament. “Ma negli ultimi tre dischi, per me, non si è trattato di stringere i denti e tirare avanti, come può essere stato quando non comunicavamo molto bene, nei momenti in cui nessuno esprimeva ciò che voleva e quali fossero le sue vere necessità. Avendo superata quella fase e avendo raggiunto un punto in cui sappiamo parlare tra di noi senza incappare in pesanti discussioni o drammi, beh questo va considerato un dono. Questo è il bello di essere cresciuti.”

“E sai una cosa? Ancora adesso ci sono gli Stones, gli Who, Neil Young e Bob Dylan. Tutti loro hanno riscritto le regole del rock’n’roll,” dice entusiasmandosi. “Si può stare assieme per lungo tempo e farlo nel modo giusto. Puoi farlo con onestà.”