Intervista a Vedder da Rolling Stone | Maggio 2003

Eddie Unabridged
Pearl Jam singer speaks out about Eminem, Kurt and George W.

Rolling Stone | 7 Maggio 2003

By David Fricke
Traduzione a cura di Angpo

L’ultima volta che il cantante dei Pearl Jam, Eddie Vedder, parlò con Rolling Stone fu nell’autunno del 1993. Bill Clinton era alla Casa Bianca e George W. Bush era nel baseball, compropietario dei Texas Rangers e a un anno di distanza dal suo primo mandato come governatore del Texas. Seattle era la capitale mondiale del rock e Vedder era il re non ufficiale – e non a suo agio – del mondo: il volto e la voce di un gruppo che aveva appena venduto quasi un milione di copie del suo secondo album, Vs., nella prima settimana di uscita.
Dieci anni dopo, i Pearl Jam sono ancora una delle più grandi band rock. Hanno venduto più di 26 milioni di album nei loro 10 anni insieme; Vedder, i chitarristi Stone Gossard e Mike McCready, il bassista Jeff Ament e il batterista Matt Cameron rimangono anche una delle maggiori attrazioni dal vivo, offrendo in questo momento un concerto di due ore e mezza ogni sera nel loro tour americano di tre mesi. Ma Bush è presidente, l’America è una nazione trasformata dal terrorismo e divisa dalla guerra. E Vedder è diventato un bersaglio, una star e un privato cittadino che è stato insultato pubblicamente per aver espresso la propria opposizione alla guerra in Iraq e all’amministrazione Bush.

Durante la tappa a New Orleans, rifornito di caffè e sigarette, Vedder ha parlato in dettaglio delle sue avventure col diritto di espressione: specialmente durante la sera d’apertura del tour a Denver, l’1 aprile, quando il rituale teatrale con la maschera di Bush e la canzone Bu$hleaguer, dal loro ultimo album Riot Act, sono finite sulle prime pagine dei giornali e hanno attirato le ire dei falchi dei talk show. Ma i risultati della nostra conversazione – pubblicati sul numero 923 di Rolling Stone – davano solo un assaggio dei temi toccati in modo più ampio: scrivere canzoni, Ticketmaster, l’ultimo Joe Strummer, Ralph Nader, Eminem, lo stato di Seattle, l’arrivo della mezza età, il futuro dei Pearl Jam.

Questa intervista aspettava da dieci anni.

Quando e come hai scritto Bu$hleaguer?

Questa canzone è stata scritta quando eravamo ancora in Afghanistan. Io uso una vecchia macchina da scrivere. Quando entro in studio per cominciare un nuovo album, ho una busta della Federal Express piena di fogli battuti a macchina. Non ricordo nemmeno cosa ci sia scritto su metà di essi. Poi suoniamo e io scorro i fogli. Stone aveva una canzone, aveva il ritornello, la parte che riguardava i blackout [“Blackout weaves its way through the cities”]. Era durante la crisi energetica, i blackout in California, e io ho cominciato a scrivere il testo. I versi erano molto musicali, davvero una bella chitarra e pensavo che volessero diventare una canzone. Non volevano certo essere rovinati da una qualche performance di parlato. (ride)

Ma tu l’hai fatto.

Era l’ultimo giorno di una seduta di due settimane in studio e volevo solo buttare giù qualcosa. Così ci ho provato e loro l’hanno ascoltata per un paio di settimane. Penso che avessero cominciato ad abituarsi. Però avevano ancora una richiesta: “Puoi provare un’altra volta? Puoi dire le stesse cose, ma cantandole?.” Alla fine si sono convinti.

Bu$hleaguer in un certo senso è una canzone abbastanza divertente. Stai sicuramente giocandoci.

Ero abbastanza sicuro con i punti chiave, le informazioni che ci sono dentro. È stata anche scritta con umorismo. Ed è in circolazione dallo scorso novembre, quando uscì Riot Act. Poi l‘abbiamo suonata in Giappone e Australia. È un dialogo: la musica rock può essere davvero un bel luogo di discussione. Se la gente sia d’accordo o meno, lo scopri là fuori ogni sera. Puoi capire se in Florida la pensano in modo differente rispetto all’Ohio, alla California o all’Italia [vuol dire che viene?!!?] semplicemente cantandola.

A Denver, hai anche parlato della guerra in Iraq a inizio concerto e qualcuno tra il pubblico ti ha urlato “Stai zitto!”

Era una donna dietro di me (fa un gesto dietro le spalle, dove sarebbe dovuta essere la galleria).

Eri sorpreso che qualcuno ti abbia davvero detto di stare zitto?

No, una volta che cominci è una cosa normale. Potresti parlare del Papa e qualcuno ti direbbe di chiudere la bocca.

La tua risposta immediata, sul palco, fu molto più dura (“Qualcuno mi ha detto di stare zitto? Non so se hai sentito parlare di quella cosa che si chiama libertà di parola, amico. Vale la pena di pensarci perché sta scomparendo. Noi continueremo ad usarla, e certamente io non chiederò scusa”).

Dipende dalla libertà di parola, e di come questa si rapporti al rock. Voglio sperare che il rock non sia l’ultimo bastione della libertà di parola. Ma dovrebbe davvero essere protetta lì. È una cosa che non vorremo che succedesse – siamo un gruppo da 12 anni. Pensiamo di star suonando più bene che mai. Ci siamo già passati, durante la lotta con Ticketmaster (a metà degli anni ’90) quando facevamo concerti lacrime e sangue, in cui costruivamo noi stessi i posti dove suonavamo. E fuori questo veniva rappresentato solo come una lotta contro Ticketmaster, come se riguardasse solo i sovrapprezzi sui biglietti, e che non riguardasse la musica. Anche in quei periodi difficili, eravamo ancora un gruppo. Bisogna comunque mantenere l’attenzione sulla musica, non su quale stronzata politica ci sarà questa sera.

Sei sorpreso dal conservatorismo di alcune persone tra il vostro pubblico, considerando che storicamente la musica ha rappresentato valori non repubblicani — sesso, droga e ribellione?

Questo mito per me è crollato quando ho saputo che Johnny Ramone era un repubblicano di quelli duri (ride). Dio lo benedica. È uno dei miei migliori amci.

Forse conservatore non è la parola giusta quando si parla dell’odierno punk rock. Compiacente potrebbe essere più appropriato.

Succede quando la musica diventa solo intrattenimento. Ed è lì che traccio la linea di divisione. Mike Watt (bassista, ex Minutemen) ha una visione differente. Sul suo passaporto, dove c’è scritto occupazione, lui non mette musicista, mette uomo di spettacolo. Questo perché lui è sicuro di quello che fa.

Non sei convinto di essere un uomo di spettacolo?

Uomo di spettacolo è diventato sinonimo di celebrità. E io non mi sento una celebrità. Non finisco sulla copertina di People. Joan Rivers non parla di quello che indosso. Siamo stati abili nell’evitare la celebrità. Abbiamo fatto le nostre cose fuori dalla portata del radar. Forse ad un certo punto siamo stati delle celebrità, perché eravamo sempre in televisione. Ma abbiamo pensato: “Ok, se questa è la celebrità, non scappiamo”. Per noi è stata un enorme, vacuo coniglio pasquale.

Come ti senti riguardo ai soldi che avete e state facendo?

Dicono che i soldi siano la causa di tutti i mali (citazione di Money dei Pink Floyd). Io invece penso: “È incredibile. Puoi fare tante grandi cose con i soldi.” E non solo quello, ti danno il potere di dire NO, di non fare le cose che non vuoi fare. I soldi possono aiutarti ad essere più puro nel seguire i tuoi ideali, perché te lo puoi permettere.

Che cos’hai fatto con il tuo primo assegno che hai ricevuto per i diritti?

Ho comprato una casa a mia madre… (fa una pausa e poi ride) no, non l’ho fatto! Vorrei averlo fatto. Mi sento ancora colpevole per quello. Mi sono comprato una tavola da surf nuova. È una buona domanda. Ho speso il resto. Ma guido ancora il mio vecchio van di quando lavoravo alla stazione di servizio: un Toyota del ’89, una cosa piccolo. Va ancora bene.
Ma non sono solo i soldi che abbiamo fatto. Sono i soldi che abbiamo deciso di non fare, Come tenere bassi i prezzi dei biglietti e fare ogni cosa che fosse nelle nostre possibilità per mantenere i nostri concerti accessibili a tutti.

Negli anni ’90, per alcuni anni non avete fatto tour in America perché non eravate in grado di battere o aggirare Ticketmaster sulla faccenda dei sovrapprezzi e dei diritti di vendita.

È stato un periodo duro. La cosa peggiore è che ci ha distolto dalla nostra musica. Così ci siamo certamente compromessi.

Vi siete sentiti sconfitti?

Non sconfitti. Abbiamo imparato molto da quell’esperienza. Se qualcuno vuole farti tacere, può farlo. C’erano così tanti problemi – i prezzi base dei biglietti, la percentuale sulle magliette (delle vendite all’interno dei palazzetti). Noi dicevamo: ”Questo è quello che vogliamo far pagare. Significa un po’ meno per te, ma anche per noi. Lavoriamo insieme.”
Ci chiamò il Dipartimento di Giustizia. Ci chiesero: “Qual è la vostra esperienza con questi tizi? Stiamo indagando su di loro, perché pensiamo che ci sia un monopolio”. Abbiamo cercato di costruire una coalizione dei volenterosi (ride) [é l’espressione usata da Bush] ma ci hanno lasciati appesi all’amo. Abbiamo finito per spendere 80-100.000 dollari per investigare e difenderci. Questa è una delle cose che abbiamo fatto coi nostri soldi.

Eravate così impegnati nella lotta contro Ticketmaster, che potreste aver perso più fan di quelli che avete guadagnato, perché siete stati per così tanto tempo senza fare concerti.

Potrebbe essere vero. Ma era anche il periodo successivo al suicidio di Kurt Cobain. (lunga pausa). Nove anni fa. (scuote la testa). Cercavamo di sopravvivere. Volevamo avere la possibilità di continuare a suonare e fare dischi. Dovevamo ritirarci.
Era il periodo in cui prendevamo solo una o due settimane tra i tour, o due settimane prima di tornare in studio di registrazione. Non sapevamo quanto fosse importante staccare. Lavoravamo duro; pensavamo che fosse la cosa da fare quando eri in un gruppo. Penso che avessimo ancora un grosso seguito. Ma questo non vuol dire che tu non possa staccare. È meglio che perdere la tua vita e le tue relazioni, o dimenticarsi cosa vuol dire farsi il bucato da soli – mantenere una presa sulla realtà. Sembra divertente ora, ma a quei tempi era davvero un problema.

Pensi che l’aver appoggiato Nader nelle elezioni del 2000 abbia regalato a Bush la presidenza?

È più facile assolvere noi stessi da questa colpa ricordando che Al Gore doveva essere davvero un terribile candidato: non vincere come vicepresidente in carica, dopo 8 anni di economia in crescita; non essere stato in grado di vincere nel suo stato; non battere qualcuno che ha avuto in Texas dei risultati atroci per quanto riguarda l’ambiente e gli affari.
Ralph è sempre stato un attivista, tutto quello per cui ha combattuto, il fatto che è uno dei pochi eroi civici esistenti: non ce ne sono più. Non sono più permessi. Non sono abbastanza salaci. Quando sembra che ce ne sia bisogno, non si trovano. Era un’opportunità per votare con la propria coscienza. Non per il minore dei due mali.

Hai fatto propaganda al resto dei Pearl Jam per convincerli a votare per lui?

È cominciata come una cosa mia, e loro mi hanno appoggiato. Hanno immaginato che stessi facendo i compiti. È stato interessante – uno dopo l’altro sono venuti da me. Ma la prima cosa che Ralph ha detto è stata: ”Stiamo cercando soldi perché non accettiamo soft money (forma di finanziamento delle aziende, non direttamente al candidato, cosa che è proibita dalla legge, ma al partito, che poi paga la campagna al candidato). Non accettiamo soldi dalle grandi società. Se potessi contribuire in qualche modo sarebbe grandioso.” Io ho detto: “Non solo lo faremo, ma farò in modo che tutti nel gruppo lo facciano.” Quindi ho fatto un assegno, ancora prima di parlarne con gli altri. Così ho cominciato a ricevere telefonate: ”Ho sentito di questa cosa. Dobbiamo parlarne.”

Come dire “grazie per aver speso i nostri soldi”.

Sono stati davvero carini (ride).

Avete anche suonato per Nader?

No, i raduni non erano per quello. Era meglio presentarsi con la chitarra e l’armonica. Pensavano che dovessi farlo io e mi andava bene. Era il faro della verità, è da dove ho visto uscire le cose vere. Era così al di sopra della retorica degli altri che era facile credere che stavi facendo certamente la cosa giusta. E la penso ancora così.
La gente veniva da me e mi diceva: ”Sai, Nader non vincerà”. Hey, sono cresciuto a Chicago – sono un tifoso dei Cubs [squadra di baseball di Chicago che non vince da un’eternità, tipo l’Inter], ci sono abituato!

Volevo chiederti di Joe Strummer. Quando lo scorso dicembre è morto, ho sentito che avrebbe dovuto aprire uno dei vostri concerti.

Sì, avevamo appena finalizzato i dettagli. Doveva essere nell’ultima tappa. Ora suoneranno i Buzzcocks. Penso che volesse saperne di più su di noi. Ha chiamto Pete (Townshend): ”Consa ne pensi?” Non ci conosceva. La mattina del mio compleanno (23 dicembre) ho scoperto che era morto. È stata la prima telefonata che ho ricevuto quel giorno: ”Oh, mi dispiace così tanto.” Io ho pensato: ”Per cosa?”, “Joe Strummer”.

Avevi mai visto i Clash?

Li ho visti in un posto che si chiamava Golden Hall a San Diego. Mi diedero qualcosa da seguire dopo gli Who. Ho conosciuto gli Who molto presto. Avevo 10 o 11 anni – una babysitter portò “Who’s Next”. Ho passato quattro anni della mia giovinezza solo a seguire quel gruppo, tornando indietro alle cose più vecchie e poi a tutto quello che c’era in mezzo.
Ma i Clash – avevano delle vibrazioni così forti. Sono usciti con uno scopo. Erano un gruppo che faceva paura. Mi chiedo se noi, Pearl Jam, abbiamo mai fatto paura. Perché tutti i grandi gruppi facevano un po’ paura. Mi ricordo quasi di essermi sentito a disagio con i Clash, come se qualcosa di grosso sarebbe potuto succedere davvero. Una rivoluzione avrebbe potuto cominciare proprio qui. Ci sarebbero stati degli spettatori innocenti feriti – e uno di quelli avrei potuto essere io.

Che ne pensi di Eminem? Fa abbastanza paura per te?

Apprezzo la poesia nei suoi testi. Il modo in cui riesce a rendere le cose con le parole è assolutamente ispirato. Mi piace quando ci mette dentro delle informazioni. E quella canzone sulla lettera di un fan (Stan) – ci sono passato. Non fino al punto in cui finisce in una fossa. Ma nei primi tempi, rispondevo alle lettere. Loro mi riscrivevano: ”Non posso credere che mi hai scritto, è una cosa bellissima”. Poi cinque lettere arrivavano mentre ero in tour, leggevo la quinta ed era una cosa del tipo: ”Fottuto figlio di puttana, sei come tutti gli altri. Pensavo che fossi grande, ma fottiti, puttana delle corporation”. A quel punto ho deciso che non potevo star dietro a queste cose. Era impossibile.

I Pearl Jam hanno registrato e fatto un tour con Neil Young. Che cosa avete imparato da lui?

Una cosa che ho rubato a Neil è il suo modo di scrivere. Era così consapevole di quello che dovevi fare per scrivere una canzone quando arrivava la scintilla. Se qualcosa ti colpisce, anche per solo una frazione di secondo, ferma tutto e scrivi. Non devi scriverlo solo su un tovagliolo e, quando hai tempo, lavorarci sopra. Devi catturare e immortalare quel momento immediatamente. Questo spiega come faccia ad essere così prolifico.

Quale canzone dei Pearl Jam è stata fatta in questo modo?

“Thumbing My Way” è stata scritta davvero in fretta. C’è qualcosa nello scrivere rapidamente che mantiene la musica in uno stato puro. Non ci pensi come se fosse un compito. Pensi: ”Wow, mezz’ora spesa davvero bene.” C’è una gioia tangibile nel creare qualcosa che prima non c’era.

I Pearl Jam sono gli unici sopravvissuti dell’esplosione di Seattle nei primi anni ’90. Chi consideri essere i vostri pari ora?

I nostri pari sono soprattutto la gente e i musicisti di Seattle. Che suonino ancora nelle loro vecchie band o meno, sono ancora nostri amici: Kurt Block (Fastbacks), Steve Turner (Mudhoney); Scott McCaughey (Young Fresh Fellows, Minus 5), Peter Buck (R.E.M.) che ora fanno parte di quella comunità. Noi siamo di Seattle, tutto quello che succede fuori non ci tocca davvero.

Ti senti parte dell’industria musicale? Fai dischi, fai tour.

Apparentemente non vendiamo più tanti dischi, quindi forse non ne facciamo parte. E ora, letteralmente, non abbiamo un etichetta. E non c’è nessuna pressione per averne una.

Riot Act è stato il vostro ultimo disco del contratto con la Epic.

Sì, così ora c’è questo senso di libertà, la libertà di cercare nuovi modi di fare musica che non seguano i formati classici: il modo in cui i dischi vengono fatti uscire, come la tempistica debba essere sincronizzata. Forse potremmo registrare tre canzoni e farle uscire in un weekend in qualche modo o forma. È eccitante aver la possibilità di lavorare al di fuori delle trincee dell’industria. Non abbiamo ancora nessun piano specifico. Stiamo solo cominciando ad apprezzare la nostra libertà e a vedere dove ci porterà. È qualcosa per cui abbiamo lavorato. Qualunque cosa accada ora, qualunque cattiva decisione venga presa nel futuro, sarà solo nostra.

Come descriveresti lo stato dei Pearl Jam in questo momento? Il gruppo è durato più di quello che avresti pensato o più di quello che avrebbe dovuto?

In un certo senso il tempo è volato. E se lo guardi in termini di musica, di quanto siamo soddisfatti della musica che abbiamo fatto, è davvero volato. E la qualità del materiale è ancora in crescita. Dovremmo continuare? Sicuramente. Il motore gira bene, l’olio è stato controllato, l’acqua cambiata. Tutti fanno la loro parte e capiscono il proprio ruolo.
E i ruoli si sono allargati. Tutti portano canzoni. A questo punto, i Pearl Jam sono un collettivo in cui tutti possono suonare le proprie canzoni. E possiamo registrare queste canzoni in un giorno. Così non mi sembra che ci sia un qualche motivo per fermarsi.
L’altra sera guardavo Mike McCready suonare. Penso che sia davvero uno dei chitarristi più sottovalutati in circolazione. È quello che nel gruppo è passato attraverso più cose, è caduto nella droga. E ha dovuto combatterla in due differenti momenti – e ne è uscito così forte. È l’arma segreta del gruppo. Non so se la gente che non ci ha mai visto sappia quanto la sua chitarra sia potente.
Guardare Mike e Stone suonare, sia in contrasto che in combinazione, è un’esperienza elettrizzante. Stone è come se fosse il timone, in termini di riff e concentrazione. Aggiungete al mix Jeff e Matt ed è una combinazione sorprendente e duratura quella che avrete.

Stiamo ancora cercando strade per allargarci: aprirci e allo stesso tempo diventare più compatti. Quando abbiamo saputo che avremmo fatto un tour per Riot Act, non siamo semplicemente andati in giro a suonare delle canzoni: ”Vediamo cosa possiamo fare qui, per continuare a spingere.” Questa è un’altra cosa che abbiamo imparato da Neil – continuare a spingere le cose. Siamo andati a vedere Neil in uno dei suoi ultimi tour. Aveva Duck Dunn (basso) e Jim Keltner (batteria). Io e Jeff abbiamo parlato con loro e Jeff ha detto: ”Certe canzoni le avevate davvero in tasca, un groove diritto.” E loro: ”No, no, no non dire così. Neil non vuole che siano ingessate. Prova sempre a spingerle.”
Neil spinge sempre la sua musica, la tira, la cambia, noi non siamo ancora arrivati a quell punto. Ma immagino che è dove finiremo.

Hai compiuto 38 anni a dicembre. Ora guardi ai 40, un traguardo che molti dei tuoi eroi hanno dovuto affrontare: Neil, Pete Townshend, Bruce Springsteen. Hanno tutti colpito quel muro e hanno dovuto trovare un modo per superarlo. Sei pronto?

Sento che il nostro pubblico è cresciuto con noi. E alcune delle cose di cui parliamo ora penso le stiano affrontando anche loro. Cosa ne pensino i nuovi fan, o quelli più giovani non lo so. C’è una canzone su “Who by Numbers” che dice: ”Quanti amici hai davvero?” (How many friends). Era scritta dal punto di vista di una persona famosa. Ciò nonostante, quel disco parlava completamente a me a 15 anni. Non so quanti anni avesse Pete quando scrisse “Quadrophenia”, prima dei 40 sicuramente. Ma si era concentrato sulla rabbia giovanile. Non penso che si possa fare molto meglio di così.

Mi ci vedo a suonare canzoni con l’ukulele e con la chitarra acustica, e invecchiare e capire i miei limiti senza sentirmi in dovere di saltare per il palco a una certa età – anche se il surf con un po’ di fortuna mi terrà in forma. Ma sono sorpreso dalla durata del gruppo. Mi sembra una vita. Passare i 40… è circa metà della vita. Quindi siamo solo a metà.

Eddie Vedder’s Combat Rock

Rolling Stone | 29 Maggio 2003

By David Fricke
Traduzione a cura di Aries

Mi puoi descrivere esattamente cosa hai fatto con la maschera di George Bush e l’asta del microfono durante “Bu$hleaguer” a Denver?

Era il primo concerto del tour. Sono uscito con la maschera e ho fatto una danza, un po’ di “moonwalk”, in modo che il pubblico vedesse George Bush muoversi con ritmo, liberamente. Non posso cantare con la maschera, quindi, me la tolgo, levo il microfono dall’asta e appoggio la maschera sull’asta. Devo farlo con delicatezza, perché la maschera deve essere rivolta in avanti. Quindi, canto la canzone guardando la maschera. Per qualche motivo questo gesto è stato interpretato come “impalamento”.
Ho sempre utilizzato maschere di gomma. L’ho fatto anche con Clinton. Mi hanno detto, “Dov’eri quando Clinton bombardava l’Iraq?”, ma io ho criticato anche allora.
Nel rock ‘n’ roll devi essere libero di fare quello che vuoi, devo poter fare quello che voglio, anche arrivare con un vibratore da 40 cm sulla testa. In questo caso si trattava di una maschera di gomma, di uno spettacolo di satira. Non può essere censurato. Un caro amico, un repubblicano convinto, mi ha detto: “È una questione di delicatezza, non puoi farlo durante una guerra”. Ma se non puoi criticare il tuo presidente durante una guerra, non significa incoraggiarlo ad andare avanti?

Qualcuno se n’è andato per protesta durante la danza di Bush.

Io ho visto che il pubblico si divertiva. Non ho sentito fischi. Hanno scritto che dozzine di fan se ne sono andati, su 11.000, perché sconvolti dalla maschera di gomma. Avrebbero anche potuto scrivere che 10.900 si sono divertiti.
Ma una volta che la storia è arrivata ai talk show di destra, è scoppiato il putiferio: non sono stato patriottico; sono stato anti-americano; dovrei trasferirmi in Iraq e suonare lì; dopo il concerto sarei tornato a casa nella mia limousine a contare i miliardi {ride}. Questo l’ha letto Jeff. Divertente: a contare i miliardi. Sì, mi sono messo a contare i miliardi che abbiamo donato a una serie di associazioni benefiche che si occupano di cose di cui si dovrebbe occupare il governo: alloggi per madri nubili, programmi educativi. E non era una limousine, ma un cazzo di van!

Ti fa arrabbiare essere demonizzato per il fatto che hai soldi ed esprimi comunque un opinione?

Insinuano che sei un privilegiato e per questo motivo non avresti il diritto di esprimere le tue opinioni. Ma chi è più privilegiato del figlio del Presidente? Durante la campagna elettorale del 2000 qualcuno chiese a Bush, “Qual è la sua canzone preferita?” e lui rispose “John Fogerty, quella canzone, ‘Fammi entrare, allenatore, sono pronto per giocare’, sono io, mi piace”. Stavo guardando la tv, mi veniva voglia di lanciare una bottiglia contro lo schermo: “FIGLIO di puttana, hai mai sentito ‘Fortunate Son’?”

Cosa rappresenta per te ora uno show dei Pearl Jam – intrattenimento, un pulpito, uno sfogo? Il prezzo del biglietto include automaticamente l’ascolto delle tue opinioni politiche?

Prima di tutto è uno sfogo, per tutti. Lo è per noi e lo diventa per gli altri. Potremmo anche non dire niente. Le nostre canzoni non sono certo Shakespeare, ma parlano di tante cose. Sono fortunato ad avere una batteria dietro di me, una chitarra dal suono potente nelle mie mani e un grande microfono per la mia voce che mi permettono di tirare fuori tutto.
Lì mi sento come un cittadino privato che però si è trovato a far parte di una band. Ma il pulpito deve essere gestito con responsabilità. Per me ciò significa documentarsi con tutti i saggi che ho letto in questi ultimi due anni, dopo l’11 settembre, e che mi hanno aiutato a capire come funzionano queste cose e in quale direzione può essere orientato un dissenso efficace. Così, quando ho l’opportunità di parlare da un palco, almeno sento che lo faccio in modo onesto. {sorride} Se fosse successo durante il tour di Vs., il tutto si sarebbe risolto con un “Vai a farti fottere maledetto figlio di puttana!”

Non parlavi tanto durante i primi show dei Pearl Jam, nel 1991 e nel 1992. Eri più che altro occupato a lanciarti sulla folla dalle impalcature.

Prima dei Pearl Jam, quando andavo ai concerti, mi guardavo attorno, ad esempio al Metro a Chicago, e mi chiedevo “Chissà se ci si può arrampicare su quelle decorazioni attorno al palco?” così quando abbiamo poi suonato lì, è stato un po’ come volerlo scoprire. Era anche un modo per far crescere l’energia. Al termine del concerto, la gente pensava che ero veramente pazzo, che avevano visto qualcosa a metà tra la vita e la morte.

Ma eri pazzo in definitiva?

Mi sentivo invincibile, come se non avessi niente da perdere. Mi occupavo di musica dall’adolescenza ed era entusiasmante avere un pubblico. Era come uscire fuori da un angolo e mostrare agli altri qualcosa: forse troppa energia. Ho imparato a dare una dignità a questa esperienza. A un certo punto, non ho più voluto essere il ragazzo che si lanciava, lo scoiattolo volante.

Qual è stato il primo concerto rock che hai visto?

Andai con mio zio: Springsteen all’Auditorium Theatre (Chicago ’77), ultima fila. Era un sedile di plastica con la paglia. Pensai che fosse stata la più grande esperienza della mia vita. Fu veramente un concerto lunghissimo, ma non me ne volevo andare. Quando le luci si accesero, alcune persone erano ancora lì e io pensavo “Potrebbe uscire di nuovo, no? Non sarebbe fantastico se suonasse solo per queste quindici persone?” – rimasi lì ad aspettare per mezz’ora.
Mi portavo i registratori ai concerti e li registravo. Una volta fui rapinato su un treno a Chicago, mentre andavo a lavoro, facevo il cameriere. Mi colpirono in testa, facendomi sanguinare e mi rubarono il pacchetto che avevo. Avevo una registrazione perfetta del tour THE RIVER, una di quelle poche registrazioni in cui non hai perso neanche una canzone o un intro, e l’avevo persa [sospira], ero distrutto.
Tornai a casa, confuso e ammaccato. Vivevo con mia madre e i miei fratelli in un piccolo appartamento. Mia madre e mio fratello più piccolo stavano seduti al tavolo da pic-nic che avevamo in cucina e mia madre mi fa: “Che è successo? Ti sei drogato?”, si mette a urlare e mi prende a schiaffi {ride). È stata una delle peggiori giornate della mia vita. Poteva succedere altro di peggio?
Ma mia madre è una donna forte. Ha tirato su quattro figli con niente. Per un po’ ce la passammo bene. Il mio patrigno era un avvocato. Mi sentivo quasi privilegiato, poi le cose si misero male quando avevo 16 anni. Ero pieno di risentimento in quel periodo, ma alla fine tutto questo mi ha dato dei valori migliori e una forte etica del lavoro.

Eppure all’apice del successo dei Pearl Jam, a metà degli anni ’90, sei stato definito come l’archetipo della rock star frignona – “non mi piace questo, non farò quest’altro.” In un’intervista recente, Jeff ha detto che ai tempi di No Code pensava di lasciare la band, perchè in qualche modo era diventata “la band di Ed”

Sì, l’ho sentito. Non vivevo la cosa in questo modo, ma questo è tipico delle persone ossessionate dal controllo. {ride}. Cercavo solo di fare la musica che volevo fare. Ricordo che volevo che tutto fosse più veloce. “Spin the Black Circle” – Stone mi diede un nastro con questo riff {lo canticchia a bassa velocità}. Sul mio apparecchio c’era un comando di regolazione della velocità. Aumentai la velocità, andai da lui e gli dissi, “possiamo farlo così?”. Non credo che fosse una questione di controllo. La mia colpa potrebbe essere quella di aver pensato che ero io quello più esposto e, quindi, quello che riceveva più critiche. Forse ero più preoccupato degli altri che la band fosse qualcosa di cui andare veramente fieri. Quella baraonda, la musica di Seattle, ha avuto effetti tangibili sulle vite di tutti, e Kurt ne è l’esempio più estremo. Era fragile, ma c’era troppo da affrontare. Io ero fuori di me.
Venivo da otto o dieci anni di lavori normali: pompe di benzina, alberghi, cameriere, operaio. Avevo lavorato nei club locali, montando le attrezzature gratis, perché così non dovevo pagare per vedere i concerti. Avevo i piedi ben piantati per terra. Una copertina del Times con la mia faccia: quella non era la realtà.

Perché non ti fece piacere avere la copertina del Time nel 1993?

Uno dei motivi per cui ero dispiaciuto è che ne avevo parlato con Kurt. È stata una delle poche conversazioni telefoniche che abbiamo avuto. Volevano intervistarci insieme. Discutemmo se il Time stava per caso cercando di assimilare le nostre realtà e decidemmo insieme di non rilasciare le interviste, ma il giornale mi mise lo stesso in copertina. Pensai “Mio Dio, spero che Kurt non se la prenda.”

Fece parecchie dichiarazioni alla stampa contro i Pearl Jam, definendovi una band commerciale. Come descriveresti realmente il vostro rapporto?

Limitato. Sono felice che ci siano state alcune occasioni di incontro, una in particolare. Eric Clapton stava suonando “Tears in Heaven” agli MTV Awards (1992) e noi ci mettemmo a ballare sotto il palco. Sono felice che abbiamo avuto questo momento. Lo rispettavo moltissimo. Io cercavo di stare fuori dalla mischia, quindi in qualche modo dipendeva da lui deporre le armi. Fu un gesto simbolico per me.

Kurt non è sopravvissuto alla celebrità e al successo, tu sì, perché?

Non riesco a immaginare come si possa vivere tutto questo con una tossicodipendenza. Io diventai un morto vivente, completamente rinchiuso in me stesso. Penso sia successa la stessa cosa anche a lui, con in più tanti altri problemi fisici da affrontare. Io sono riuscito a stento a far andare le cose per il verso giusto. Non riesco neanche a immaginare cosa sarebbe successo altrimenti. Dopo la Danimarca, riesco con difficoltà a fumare l’erba. Non riesco a evitare la depressione.

Hai fatto riferimento ai fan rimasti uccisi dalla ressa durante un concerto al festival di Roskilde nel 2000 in Riot Act (Love Boat Captain) ma non ne hai mai parlato pubblicamente. Quando ti sei accorto che le persone stavano morendo davanti a te?

Nell’istante in cui furono tirati fuori da sotto il palco. C’era il caos. Alcuni urlavano “Grazie!” altri che non erano feriti correvano verso di noi e ci salutavano {scuote la testa incredulo}. Poi tirarono fuori delle persone, le adagiarono, ed erano blu. Capimmo subito che si trattava di una tragedia.
C’erano ancora 40.000 persone pronte a riprendere il concerto. Cominciarono a cantare “I’m still alive.” “Alive” doveva essere la canzone successiva. In quel momento mi scattò qualcosa nel cervello. Seppi che non sarei mai più stato lo stesso.

Avete pensato di sciogliervi?

È difficile {lunga pausa} abbiamo cercato di stringerci il più possibile gli uni agli altri. Ognuno reagisce a modo suo. Chi è più emotivo di carattere ha regaito in modo più composto. I più introversi sono andati a pezzi. Stone è stato il più colpito. Voleva sciogliere la band. Io avevo sempre pensato che se qualcuno fosse morto durante un nostro concerto, sarebbe stata la fine, che non avrei mai più suonato...

E invece un mese dopo eravate sul palco a Virginia Beach, aprendo il tour americano.

Suonare, guardare la folla, stare insieme ci ha aiutato a iniziare a elaborare. Scrissi “I Am Mine” la sera prima – “we’re safe tonight” – per rassicurarmi che tutto sarebbe andato bene. Ma il vero aiuto fu che i Sonic Youth aprirono per noi. Fu decisivo; la potenza e la bellezza maestosa della loro musica e quello che loro sono. Thurston e Kim hanno una figlia, Coco, che si era presa un’infatuazione per me. Non sapeva cosa era successo, non ne aveva bisogno. Ma mi portò una cartolina su cui aveva disegnato dei fiori con delle facce sorridenti e disse che io e lei eravamo i due fiori {ride}. Quando avrà vent’anni le dirò che cosa ha significato per me.

Viste le reazioni della stampa contro di te per la maschera di Bush a Denver, come ti senti rispetto al trattamento riservato dalla stampa a Pete Townshend, un tuo amico, dopo l’arresto per il possesso di materiale pornografico infantile?

Aveva pubblicato un pezzo intitolato “A Different Bomb” sul suo sito Web: lo lessi a novembre. Ero sconvolto da quello che descriveva: l’accesso alla pornografia infantile, il tipo di immagini che si trovano. Quando sentii dell’arresto, non ebbi alcun dubbio sulla sua innocenza.
La cosa difficile fu vedere la stampa appiccicargli addosso la lettera scarlatta “rockstar pedofila.” Tante delle iniziative di beneficenza a cui abbiamo lavorato insieme erano dedicate ai bambini: orfanotrofi a Chicago, case famiglia per gli adolescenti affetti da tumore a Londra. Lui non si limita a salire sul palco e suonare. Fa delle ricerche. Vedere tutto questo rivoltato contro di lui è stato disgustoso. Poi è stato prosciolto con una diffida. L’ho saputo perché qualcuno mi ha mandato un fax. Sulla stampa non c’era traccia.

Ne hai parlato con Pete? Credi che peserà sulla sua eredità?

Ne ho parlato con i suoi amici e collaboratori. Se c’è qualcuno al mondo che può superare una cosa del genere e farla diventare qualcosa di positivo, con eloquenza, è lui. Pete Townshend potrebbe mandare tutti a quel paese e vivere su una barca a vela nelle Bahamas per il resto della sua vita. Non ha bisogno di preoccuparsi di questi problemi se non vuole.

Come descriveresti la tua vita privata ora, lontano dai concerti e dai Pearl Jam?

Fare surf su un’onda mezzo miglio lontano dalla costa, dove non ci sono palazzi, solo scogli di 600 metri e cascate. Di solito sono lontano, insieme a persone che non sanno nemmeno cosa sia la musica rock. In passato facevo delle vere e proprie fughe dal mondo, rimanevo una settimana senza dire una sola parola. L’ultima volta, Jack Irons mi telefonò, io risposi e lui mi chiese se c’era qualcosa che non andava, perché non riuscivo ad articolare le parole {sorride}.
Pensare che mi è stata data questa opportunità grazie alla musica, mi fa sentire integro, orgoglioso di quello che ho fatto. Quando tutti andavano a fare surf alla fine della scuola superiore, io invece ero nella confusione più totale. Facevo di tutto per rimanere a galla. Per cui adesso mi sto rifacendo. E sapere che non vivi pugnalando alle spalle o facendo le scarpe agli altri o vendendo cose che non vogliono o imbrogliandoli, beh, questo è uno dei segreti della felicità.

Cosa pensi del livello di successo attuale dei PJ? Nel 1993, Vs. ha venduto più di un milione di copie “out-of-the-box”. Riot Act ha venduto un decimo di Vs. nella prima settimana.

Siamo completamente rassegnati. Tuttavia, c’è un gruppo di persone che fa musica che sembra attingere a piene mani dal nostro primo disco [sorride]. E hanno anche molto successo, con molto meno talento di base.

Qualche nome?

Sanno chi sono. Ne ho ascoltati un paio, metà caricatura e metà karaoke. Immagino che dovremmo sentirci lusingati, perché è chiaro che hanno sentito la nostra musica e ne sono stati influenzati. Ma vorrei che fossero un po’ migliori.
Quello che manca loro è la purezza. Entrare in una stanza e vedere gente con solo basso, batteria e chitarra che ti fanno vivere qualcosa. Questo è uno dei motivi per cui non ho mai reagito all’hip hop, per cui non ho mai rinunciato a me stesso. È l’esperienza live. Ho visto i Public Enemy al loro apice – Fear of a Black Planet [1990] – a Los Angeles. Doveva essere uno dei più grandi concerti della mia vita, e non lo è stato. Voglio vedere la sofferenza che viene dalla testa di qualcuno che sta suonando la chitarra e cantando allo stesso tempo.

Questo è quello che hai fatto a Denver e sei stato attaccato per questo. Se il rock non è più il luogo delle libera espressione, a cosa serve?

Continuerà a vendere dischi, sapone e Coca Cola, basta saltare sul treno e stare al gioco. Ci saranno sempre persone che faranno il lavoro, avranno percentuali, faranno la pubblicità. Non ci sarà certo carenza di manodopera.
Immagino che ci voglia un po’ di arroganza per dire che possiamo dire quello che vogliamo, suonare quello che vogliamo di fronte a 11.000 people. Denver è stato uno shock: avremmo potuto rovinarci per sempre solo facendo le cose che abbiamo sempre fatto.
In ultima analisi, penso al verso di “Rockin’ in the Free World” [Neil Young] : “Don’t feel like Satan, but I am to them / So I try and forgive ’em any way I can” [Non mi sento Satana, ma lo sono per loro / Così cerco di perdonarli come posso]. Potrei addirittura perdonare George Bush dentro di me, per l’amore e la fiducia che potremmo un giorno seppellire questa dottrina di azione preventiva in Iraq e lasciarla lì.