Intervista a Eddie Vedder
di Lasse Anderson
Rolling Stone (Germany) | Novembre 2002


RS: Ieri ho ascoltato il vostro nuovo disco, ma un singolo ascolto non è sufficiente per capire tutti i dettagli. Ma questo lo sai molto bene. Che cosa significa Riot Act per te?

EV: Riflette alcune cose che sono successe nel mondo e anche alcune che sono successe a noi. Se hai la possibilità di fare un buon album, di suonare con dei musicisti fantastici, dovresti sfruttare questa possibilità, no? Che senso ha fare qualcosa di mediocre e non dare tutto quello che puoi? A livello di stesura dei testi, nell’album vuoi mettere tutto quello che hai e liberare la tua mente di tutte le idee, teorie e filosofie che hai sviluppato col passare degli anni. È un po’ come buttare gli ospiti fuori da un hotel e ripulire una stanza dopo l’altra. Le grandi pulizie. Fa bene liberarsi di tutti i pensieri e lasciarli da soli nel mondo.

RS: I testi parlano soprattutto di amore e di tutti gli aspetti dolorosi e complessi connessi all’amore.

EV: Certo, prima viene l’amore e poi viene il dolore. Sembra che stiamo tutti girando in circolo, ma chi ci tiene in movimento? La mano di Dio o qualcos’altro? Forse è l’amore o il tentativo di avere quell’amore che non abbiamo mai avuto. O di inseguire il vero amore. Poi avere una perfetta relazione e tuttavia pensare: “È tutto qui? C’e forse qualcos’altro?”. Quando stai bene, è come se ti muovessi velocemente in circolo. Questo è il motivo per cui si scrive così tanto sull’amore.

RS: Avete appena girato un video per il vostro nuovo singolo, “I Am Mine”. Nel passato avete rifiutato interviste e video, per lasciar parlare la musica. Avete cambiato la vostra attitudine?

EV: No, definitivamente no. Per quanto riguarda il video, abbiamo semplicemente suonato un concerto tranquillo in un piccolo club a Seattle e questo concerto è stato filmato. Non so cosa succederà con il video. È una specie di documento. Non penso che diventerà un video ufficiale.

RS: L’integrità è sempre stata molto importante per voi e negli ultimi anni non avete fatto molte cose promozionali. Ma ora sembra che vi stiate aprendo un po’. È perché la pressione si è allentata o perché non prendete più la cosa così seriamente?

EV: Non penso che abbiamo aperto troppo la porta. Però siamo orgogliosi dei nostri ultimi due dischi e quindi va bene aprire un pochino la porta e lasciare che il mondo possa guardare all’interno, per poi chiuderla di nuovo. Vogliamo che la gente sappia che c’è qualcosa di nuovo. Non ci facciamo problemi per questo. Di sicuro non è diverso fuori dagli Stati Uniti, c’è così tanta produzione. Siamo bombardati di promozioni di nuovi prodotti, musica, moda, bevande. Cercano sempre di propinarci qualche nuova stronzata da mangiare. Non vogliamo assolutamente fare parte di tutto ciò. Anzi, è l’opposto; noi crediamo in una minore commercializzazione.
Il nostro album uscirà il 12 Novembre negli Stati Uniti e il 29 Novembre alcune organizzazioni hanno chiesto alla gente di fare un boicottaggio commerciale. Dovrebbe essere il giorno in cui la gente non consuma nessun prodotto. Sarebbe bello se nessuno comprasse il nostro disco, quel giorno. E se qualcuno vuole copiarsi il nostro album, lo può fare. Per noi è importante che la gente ascolti la nostra musica. Ciò non significa che faremo un tour mondiale lungo due anni. Perciò non abbiamo bisogno di sponsor e nemmeno li vogliamo. Lo faremo senza accettare alcun compromesso. Ci presenteremo in un modo che sia accettabile per noi.

RS: L’ultima volta che ci siamo incontrati è stato dopo il concerto di Roskilde. Ho avuto la possibilità di avere un pass. Mi trovavo sul palco e quando sono tornato a casa la mia segreteria telefonica era piena di messaggi di persone che volevano sapere…

EV: … se stavi bene.

RS: Sì. Ti va di parlarne o preferisci se rimandiamo a dopo questa parte dell’intervista?

EV: È una cosa strana… ne ho parlato in quasi tutte le interviste che ho fatto nelle ultime due settimane, ma il fatto che tu fossi lì con noi, riporta indietro il trauma. Ho dovuto raccontare agli altri giornalisti le cose che sono successe [Eddie ha le lacrime agli occhi]… magari ne possiamo parlare più là? È un po’ troppo.

RS: OK. Voi avete sempre avuto un’enorme energia. Per quale ragione? L’amore per la musica o il desiderio di cambiare il mondo? O un insieme di entrambe le cose?

EV: Amo il mio lavoro. Lo farei sempre, non importa come. Prima di cominciare con la band, ho passato dieci anni a fare lavori da 48 ore alla settimana. Tutti i soldi che guadagnavo, li spendevo per musica, registratori, amplificatori, altoparlanti e cose del genere. Farei musica anche se nessuno la ascoltasse. Per diversi anni non ho nemmeno avuto una band. La cosa importante per noi è la nostra musica, non i video, non le fotografie. Non li vogliamo perché è una questione di rispetto e di integrità, perché vogliamo tenere i nostri sentimenti per la musica e per le cose che contano. Questo significa ignorare tutte le cose che non riguardano la musica. Pubblicare dischi e fare concerti sono le uniche cose importanti per noi.
Ogni tanto apriamo la porta, solo per mantenere viva questa band, e abbiamo la fortuna che molte persone ci ascoltano dagli inizi. È che il nostro primo disco è stato pubblicato in un momento in cui tutti ascoltavano le band di Seattle. Dopo quel periodo, abbiamo detto addio a una parte del pubblico, ma lo “zoccolo duro” dei fan è rimasto.

RS: E per quanto riguarda l’altro aspetto, il desiderio di cambiare il mondo?

EV: Questa è una cosa che succede dietro le quinte. Molte delle cose che facciamo non raggiungono l’attenzione del pubblico, ad esempio l’aiuto concerto di un singolo [membro della band] o il nostro impegno contro la pena di morte. Una cosa che è diventata di dominio pubblico è stato il nostro sostegno a Ralph Nader nelle elezioni presidenziali del 2000. Io lo sostengo ancora. Non voglio arrivare a dire che lui è una delle poche persone oneste negli Stati Uniti, ma è uno dei pochi che osa parlare di determinati problemi, altri politici non ne parlano perché dipendono dalle industrie. Durante la campagna elettorale [del 2000], Bush e Gore erano addirittura sostenuti dalle stesse corporazioni industriali e qualsiasi cosa potesse danneggiare i loro interessi non è stata discussa. Ralph è stato l’unico che ha parlato di certi argomenti perché è indipendente e non è sponsorizzato dall’industria. Per noi, era importante che partecipasse ai dibattiti televisivi, per obbligare gli altri due candidati a rispondere alle sue domande. E continuiamo a sperare di poter raggiungere quest’obiettivo, in futuro.

RS: Diresti che è meglio essere nei PJ oggi che 10 anni fa?

EV: Ok, senza lamentarsi… allora era un periodo difficile. Ci dovevamo confrontare con qualcosa che era difficile da gestire. Così tante persone intorno a noi, avevi sempre la sensazione di correre a testa bassa, che significa che puoi vedere solo due passi davanti a te, e così perdi la tua prospettiva. Ora le folle non ci sono più (EV ride) e possiamo tenere la testa in alto e vedere la nostra strada chiaramente davanti a noi. Per due anni abbiamo semplicemente corso in giro, accecati. Non è divertente. Finalmente hai successo e poi scopri che non te lo puoi godere. Sono uscite tante cose buone da quel [periodo], ma c’è voluto un po’ di tempo per superare quella fase.

RS: È più facile per te stare sotto i riflettori al giorno d’oggi?

EV: Sì, perché ho imparato a scomparire temporaneamente. A volte mi ritiro in posti in cui nessuno ti conosce e nessuno s’interessa a te – il mondo non è poi così piccolo e in mezzo all’oceano o su una qualche isola sconosciuta non c’è il pericolo di essere riconosciuti. Sicuramente ho la fortuna di potermelo permettere. Perdermi nella natura. Una balena non s’interessa a me. Tutto questo mette le cose nella giusta direzione. Così mi ricarico le batterie.

RS: Perché i Pearl Jam, a differenza di altre grandi band, sono sopravvissuti nella scena di Seattle?

EV: In realtà abbiamo avuto tutti le stesse possibilità, no? Forse dipende dal fatto che nessuno mi ha mai offerto dell’eroina. Sono grato per questo. Un’altra ragione è il fatto che noi amiamo stare in questa band. La band non ci definisce come individui, ma è un posto in cui ci piace stare. Nel tempo libero tutti noi scriviamo canzoni e gli altri [della band] hanno dei progetti esterni ai Pearl Jam. La band di Matt di chiama Wellwater Conspiracy, hanno pubblicato tre o quattro dischi e sono dannatamente bravi. Stone e Jeff hanno una band per conto loro. Ci ritroviamo, mettiamo insieme le nostre canzoni e vediamo qual è il risultato, poi registriamo un disco, facciamo dei concerti ma ognuno vive la propria vita. Questo è molto importante, una band non deve dominarti la vita.

RS: Pensando a Eddie Vedder, la maggior parte delle persone si fa l’idea di testi malinconici e di un punto di vista molto pessimistico. Nel 1996 vi ho seguiti in tour e ho avuto l’opportunità di conoscere un altro ragazzo, che era allegro e rideva molto. C’è differenza tra l’Eddie Vedder pubblico e quello privato?

EV: Con i miei amici, mi lascio andare. Sai, non è un male avere una reputazione del genere, perché così la gente non ti disturba. Ho lavorato duro per questo! Per ogni emozione c’è un momento giusto e un posto giusto. Avere la possibilità di liberarti da tutta l’oscurità che c’è tra i tuoi occhi e le tue orecchie (l’oscurità nella tua mente) fa bene alla salute. Specialmente se riesci a trasformarla in arte. Posso solo consigliare a tutti di dipingere, di scrivere, di fare qualcosa di creativo. È una cosa che fa definitivamente bene alla tua mente.
Certo, puoi buttare i tuoi soldi per uno psicologo, ma pensa al costo di un’ora di terapia – con gli stessi soldi puoi comprare 10 tele, 12 barattoli di colore e cinque pennelli, che è abbastanza per un anno intero. E poi hai creato qualcosa che puoi appendere al muro, e lo puoi far vedere agli altri, così magari riescono a conoscerti meglio. Certamente puoi bere qualcosa insieme ad altra gente, che non è per niente male, ma un dipinto appeso al muro, non importa quanto sia triste, può esprimere qualcosa che le parole non possono esprimere. È salutare e mi aiuta ad essere un essere umano migliore nella vita di tutti i giorni.

RS: Oggi sei un essere umano più felice?

EV: Negli ultimi due anni, anche prima di Roskilde, c’erano alcune cose nella mia vita che erano davvero problematiche e non volevo che andassero in quel modo. Voglio dire, sento di comportarmi in modo positivo verso il mondo. Forse posso sembrare arrogante, ma pensavo di avere un buon karma.
E poi, quando improvvisamente arrivano dei problemi, senti che non è giusto. Per un po’ di tempo, non volevo rendermene conto, ma alla fine ho dovuto affrontare la sfida. Come ho già detto, è cominciato tutto prima di Roskilde.
E poi è arrivata quella sera… 45 minuti prima di salire sul palco, ricevetti una telefonata da Seattle: la moglie di Chris Cornell aveva dato alla luce una bambina. Ero così contento e mi sentivo così felice per lui che sono dovuto uscire e ho pianto un po’. Chris è uno dei miei migliori amici e loro avevano aspettato così tanto tempo un bambino. Avevo deciso di parlare della cosa sul palco durante il concerto. Non volevo nominarli ma volevo documentare la nuova vita, anche se solo su disco. Solo per farlo sentire a lui (Chris) e fargli sapere che i miei pensieri erano con loro. E poi, dopo un’ora e mezza, la vita se ne va davanti ai tuoi occhi…
Sai, non voglio che venga scritto niente a riguardo senza sottolineare il fatto che quello che è successo a noi non è stato niente in confronto a quello che hanno passato le famiglie e gli amici delle persone che hanno perso la vita là.
Abbiamo pianto, abbiamo dovuto fare i conti con quello che è successo e integrarlo in qualche modo nelle nostre vite, ma non è niente in confronto al loro dolore. C’era un ragazzo australiano, Anthony Hurley. I suoi amici mi hanno chiesto se potevo scrivere qualcosa per la veglia funebre. I suoi familiari sono gli unici che ho potuto conoscere davvero. Abbiamo invitato le sue sorelle a Seattle, anche alcuni dei suoi amici sono venuti con loro e abbiamo guardato le sue fotografie e parlato di lui. Questa cosa ci ha davvero aiutato. Ci ha aiutato a fare fronte a qualcosa che sembrava totalmente incomprensibile. Ne parlo solo perché voglio offrire alle altre famiglie e agli amici l’opportunità di entrare in contatto con noi. Ne saremmo davvero felici.

RS: Spesso ho pensato a questa cosa, in realtà avete salvato una vita, perché io mi trovavo accanto a Mike McCready e ho sentito che Jeff voleva cominciare con “Alive”. Almeno, questo è quello che ho pensato. E se voi l’aveste seguito, altri dieci minuti sarebbero andati sprecati, ma poi siete stati interrotti…

EV: Sai, è molto difficile non rimproverarti anche per le cose che non puoi influenzare. Anche la disposizione del palco ha influito. C’erano due aree in linea retta, quindi era difficile vedere la gente di fronte a te. Se ascolti le registrazioni dei precedenti concerti europei, puoi sentire che ci sono molti concerti duranti i quali lo show è stato interrotto. Forse 20 concerti su 30. Prima non era mai stato un problema. A Roskilde tante cose sono andate per il verso sbagliato. Semplicemente non era il nostro show, non c’erano le nostre guardie di sicurezza che non hanno problemi a farmi un segnale. Io penso che qualcuno si sia reso conto che stava succedendo qualcosa, ma forse hanno pensato che non erano autorizzati a interrompere il concerto. In un certo senso è comprensibile, dopo tutto c’erano 50.000 persone e non sapevano cosa fare, ma non sarebbe stato un problema, noi lo facciamo costantemente, se solo avessi visto qualcosa.

RS: Io mi trovavo a lato del palco, mi sono spostato verso il fronte del palco per diverse volte, e neanch’io ho visto niente. Il tempo era pessimo…

EV: … e le luci ci accecavano.

RS: All’inizio pensavo che vi foste fermati perché l’acqua stava entrando nelle strumentazioni. Pensavo che fosse per motivi tecnici…

EV: Vorrei che quello fosse stato il motivo. Qualsiasi altro motivo. Vorrei averlo evitato. Quando abbiamo capito cos’era successo, è stato come trovarsi nel peggiore degli incubi. L’11 settembre, il giorno degli attacchi terroristici, posso immaginare come ci si doveva sentire a essere a New York o ad avere qualche familiare all’interno degli edifici. C’erano dei paralleli con noi e di sicuro con la Danimarca. Sai, tu crei una situazione in cui tutte le persone possono fare quello che vogliono, mangiare, bere, ascoltare musica, c’è un senso di comunità. Non puoi lasciare che la gente si prenda cura di se stessa. Devi essere preparato a tutto. Tu li inviti, loro ti pagano. Devi assicurarti che loro si lascino andare e tuttavia se responsabile per la loro sicurezza. Forse ora l’hanno capito a Roskilde.

RS: Nel frattempo, le norme di sicurezza sono diventate molto più rigide. Hanno fatto molti passi avanti. Ci sono delle barriere di fronte al palco.

EV: Forse sono stati un pò negligenti perché per tanto tempo non era mai successo niente.

RS: L’uomo addetto alla tua sicurezza, che lavora anche per i Korn, mi ha detto che volete fare alcuni concerti in Danimarca in primavera. È vero?

EV: Non ci sono piani . A dicembre faremo alcuni concerti di beneficenza a Seattle e dintorni, ma forse non verremo in Europa questa volta. Entro la fine dell’anno prossimo staremo già registrando il nostro nuovo album. Molte band pubblicano un disco a poi vanno in tour per due anni, li puoi vedere solo ogni due anni. Al contrario, noi pubblichiamo un album ogni anno – l’anno scorso è stato un’eccezione – e facciamo un breve tour, ad esempio in Giappone e Australia o America. Poi pubblichiamo un nuovo disco ed è il turno dell’Europa. Ci potete vedere solo ogni due anni, però avete due album. È un po’ complicato, no? È un po’ come l’alta matematica. Una cosa è sicura: non suoneremo mai più in un festival. Non funziona più. Ma ci sono molte grandi arene da 10.000 posti in cui non ci sono problemi per quanto riguarda la sicurezza. Il trauma di Roskilde ci perseguita ancora. Perciò dobbiamo fermarci ancora un po’ prima di poterlo rifare in una dimensione più piccola.

RS: Molte persone hanno pensato che non sarebbe stata una sorpresa se i Pearl Jam avessero deciso di non fare più concerti, e che una decisione del genere sarebbe stata comprensibile.

EV: Di sicuro ci abbiamo pensato e se si fosse trattato di un nostro concerto, organizzato da noi, o se io avessi visto qualcosa e non avessi fatto niente – se noi fossimo stati in qualche modo responsabili per il disastro, in quel caso non avremmo mai più fatto dei concerti dal vivo.

RS: Pensi che il festival doveva essere fermato, invece di proseguire?

EV: Sì, il rispetto per i morti lo richiedeva. Ma dovevano vendere più birra…

RS: Com’è stato andare avanti, per te, dopo quel giorno?

EV: Siamo tornati in America e abbiamo provato perlomeno a finire i rimanenti concerti. I Sonic Youth erano il nostro gruppo spalla. La prima sera hanno cominciato con “Teenage Riot”, una delle mie canzoni preferite. Sono saliti sul palco e dopo quattro minuti ho capito di cosa si trattava. Potevo smettere per un breve lasso di tempo di pensare a Roskilde e ho realizzato che tutto quello che conta è il potere che sta dietro alla musica, e che tutto sarebbe tornato ad essere bello.
Un’altra cosa che ci ha aiutato è stata una conversazione che abbiamo avuto con Pete Townshend il giorno dopo. Lui e Roger Daltrey sono stati molto simpatetici, perché hanno avuto la stessa esperienza a Cincinnati nei primi anni Ottanta. Io ero al limite (mentalmente) e dissi a Pete che non potevo comprendere quello che era successo, dal momento che ci preoccupiamo tanto della sicurezza. Perché doveva succedere proprio a noi, tra tutte le band? Lui mi ha esposto un altro punto di vista. Mi ha detto ‘forse è successo a voi perché voi potete affrontarlo, avete un rapporto speciale col vostro pubblico, il rispetto reciproco’. In quei giorni pensavo che non avrei mai superato [il trauma]. È probabile che non succederà mai, ma col tempo le cose stanno migliorando. All’inizio ci pensi in modo costante, poi ogni cinque minuti, e dopo un po’ “solo” ogni 15 minuti. Nei giorni successivi non riuscivamo a mangiare niente e a parlare di nient’altro. Quando qualcuno mi parlava di un disco o di una partita di baseball, pensavo ‘cosa succede, questo non significa niente ‘. Appena tornati a Seattle, noi – la band e la crew – abbiamo creato la nostra personale rete d’emergenza, ci sentivamo per telefono, perché non c’era nessun altro all’infuori di noi con cui poterne parlare nel modo giusto. Non funzionava coi nostri amici e le nostre famiglie e avevamo la sensazione di non poter fare a meno di pensarci costantemente. È andata avanti così per molto tempo, e continua ancora. L’abbiamo elaborato musicalmente nella canzone “Love Boat Captain”. Suoneremo questa canzone a ogni concerto. Per ricordare i ragazzi che sono morti. Questo è il minimo che possiamo fare.