Life’s a Riot with Pearl Jam
By Tom Lanham
Pulse
 | Dicembre 2002

Traduzione a cura di Angpo

Alla cerimonia di induzione dei Ramones nella Rock and Roll Hall of Fame dello scorso marzo, il pubblico ha visto un ceffo con un giubbotto da motociclista e un taglio alla moicana salire sul palco per un coinvolgente tributo di 17 minuti alle leggende del punk.
Questo maestro di cerimonia poteva davvero essere, come annunciato, il famigerato primo ringhiatore per i Pearl Jam, l’elusivo, recluso Eddie Vedder?
Infatti lo era. Ma non si era rasato la testa solo per l’occasione.
Le radici del taglio radicale di capelli di Vedder risalivano a parecchi mesi addietro, a una decisone post 11 settembre presa per protestare contro gli attacchi del regime di Bush all’Afghanistan. “Non ero d’accordo con i bombardamenti, così ho fatto la mia personale dichiarazione con quel taglio,” dice alzando le spalle. “Così c’era davvero una ragione reale, per quanto possa essere sciocco fare una dichiarazione con un taglio di capelli. Specialmente considerando che ero abbastanza isolato su una piccola pazza isola – un’isola segreta nel Pacifico del Sud – così non era come se tutti potessero vedermi.”
“Chi si è occupato del taglio?” Vedder ride. “Una vecchietta in un negozio dell’isola. Aveva dei figli a cui aveva fatto un taglio alla moicana, l’aveva già fatto prima.” Anche se c’è solo un leggero venticello prodotto da un ventilatore portatile nella stanza di registrazione nello studio dei Pearl Jam nel Cascade District di Seattle, Vedder si accende una sigaretta usando un trucco “che ho imparato sull’isola – è come le accendono laggiù.” Sollevando la sua maglietta degli Who con gli avambracci, nasconde la testa nel buco e accende. Aspirando soddisfatto si passa le dita nel suo nuovo taglio corto, che, a parte una leggera protuberanza al centro, sembra vedire direttamente da “lasciatelo al castoro. “Come Eddie Haskell!” dice Vedder imitando Hasell, “e devo dire che hai un bellissimo aspetto oggi. Ma sì, sto maturando, questo potrebbe essere lo stesso taglio che avrò quando diventerò nonno. Il mio look da nonno.”

L’impegnato Vedder rimane comunque seduto abbastanza per parlare di Riot Act, il nuovo disco dei Pearl Jam per la Epic. Ma la scoperta di questo nuovo materiale deve essere effettuata tra le acque di quell’esotico ritiro sull’isola. Un luogo dove la fama non è importante, dove Vedder può suonare il suo ukulele per tutta la notte e di giorno coltivare quell’hobby che gli ha cambiato la vita, il surf. O “un collegamento reale con la natura,” come dice lui. Con o senza il suo amico professionista Kelly Slater, il nativo di Chicago, che vieve a Seattle, Vedder ha preso le onde alle Hawaii, California, Australia, Nuova Zelanda, e più recentemente a Tahiti, dove ha assistito al campionato del mondo dei professionisti lo scorso maggio. “Ma non ho cavalcato le onde più gradi che chiamano Teahupo-O,” confessa, “sono delle creatrici di vedove, così ho provato con un’altra onda che è un poì la versione ridotta di quelle, ed è stato già più che sufficiente.” Ci sono state alcune sfide alla morte nell’acqua salata. Un paio d’anni fa, una canoa che Vedder aveva affittato alla Hawaii si capovolse e se ne andò per proprio conto dopo essersi raddrizzata, abbandonando Vedder e altri due alla deriva in pieno Oceano Pacifico. “Come delle noci di cocco saremmo probabilmente finiti a Tahiti. Ma siamo stati salvati dall’unico peschereccio che era in giro, perché avevamo dei remi e fummo in grado di agitarli sopra l’acqua. Tornammo a terra e io non ci pensai molto fino a quando non presi un’altra barca e realizzai quanto al largo eravamo. Mi venne la nausea. Parecchi Hawaiani mi dissero che avrei dovuto tornare a casa e fare qualche altro concerto di beneficenza, perché avevo consumato tutto il mio Karma.”

Da allora Vedder, 37 anni, ha accumulato un bel po’ di buona sorte. Negli ultimi 24 mesi è apparso col suo vecchio amico Neil Young e col chitarrista dei Pearl Jam Mike McCready al Tributo agli Eroi, eseguendo un’intensa versione di “Long Road”, così come all’annuale Bridge School Benefit nella Bay Area (San Francisco) e al concerto/DVD di Neil Finn a Auckland in Nuova Zelanda (“7 Worlds Collide”). Vedder ha anche suonato da solo per beneficienza per il Record Artist Coalition, il Britain’s Teenage Cancer Trust, il West Memphis Three Defense Fund e per i Verdi di Ralph Nader. Con altri compagni dei Pearl Jam (il chitarrista Stone Gossard, il bassista Jeff Ament, l’ex batterista dei Soundgarden Matt Cameron) ha contribuito all’album No Boundaries, a beneficio dei rifugiati del Kosovo; ha aiutato ad assemblare alcune oscure canzoni per un prossimo album di rarità; ha pubblicato un DVD dal vivo, Touring Band 2000, come anche 72 “Bootleg Ufficiali” diversi; quindi ha dato i tocchi finali a Riot Act. E’ sorprendente che abbia trovato il tempo di respirare, per non parlare di andare a Tahiti. A parte il taglio alla moicana, Vedder si è ritagliato l’immagine modesta da uomo qualunque. Negli anni si è gustato una tale anonimità, controllando da vicino le immagini del gruppo ed evitando si mostrarsi sulle copertine dei CD, sulle pubblicità o sui poster dei tour. Probabilmente potrebbe passeggiare tranquillamente tra il pubblico di un suo concerto senza essere riconosciuto. O almeno fare surf su qualche tranquillo litorale in anonimato.

Sul tavolino da caffè davanti a Vedder c’è una vecchia macchina da scrivere Smith-Corona degli anni ’30, con inserito un foglio di carta bianco, pronta a partire. E ogni tanto si ferma per battere qualche idea, un mucchio di fogli con queste casuali idee è accumulato di fianco alla macchina. In questo modo sono stati composti la maggior parte dei testi di Riot Act, spiega Vedder. Come la poetica coppia di versi nella sommessa ballata “Thumbing my Way”. “The rusted signs we ignore throughout our lives / choosing the shiny ones instead.” (Tutti quei cartelli arrugginiti che abbiamo ignorato nella nostra vita / scegliendo invece quelli luccicanti). “Voglio dire, per esempio, come usare un computer invece di una macchina da scrivere. E mi sono ritrovato con parecchie pagine, tutte scritte a macchina attorno a me.”

E’ da dove Vedder ha tirato fuori le parole contro George W. Bush che mormora/declama sul riff pungente di Gossard in “Bu$hleaguer”. Per questo convinto seguace di Nader, non c’era neppure da pensarci per menar colpi a Dubya, “ed è divertente,” aggiunge. “E’ una canzone divertente. Ed è interessante che questa canzone sia molto melodica, ma ogni cosa che provavo a cantare suonava troppo carina.” Così ha optato per il parlato. E il suo foglio di osservazioni? “L’ho tirato fuori l’ultimo giorno della prima sessione, che è durata due o tre settimane, perché volevo mettere qualcosa sulla musica di Gossard. E colpiva abbastanza, ma se avessi pensato che sarebbe finita sul disco mi sarei potuto censurare un pochino.”

Prodotto dal gruppo e da Adam Kasper, e mixato dal veterano Brendan O’Brien, Riot Act è lo sforzo più organico di Vedder e soci, un disco che sembra registrato dal vivo in una stanza, e molto spesso lo è stato. Il batterista Cameron, il cui stile potente spinge il progetto a rotta di collo, ha contribuito all’inno da party punk “Get Right” e, aiutato da Vedder, all’ode al vero amore “You Are.” Ament ha composto la processionale “Help Help” e la blues, anti-media “Ghost”, e con Vedder la ancora più blues “1/2 Full”. Gossard ha aggiunto il tranquillo ritmo acustico di “All or None” che chiude il disco. Ma sta anche inseguendo una doppia carriera, pubblicando il suo primo album solista, Bayleaf, ed il secondo CD col suo gruppo Brad.

Vedder ha composto i testi di 12 delle 15 canzoni di Riot Act, e la musica di sei, il disco si adatta alla sua visione. La saltellante “I Am Mine”, la cadenziata militarmente “Can’t Keep” e il crescendo di “Love Boat Captain” toccano temi come la morte, il dolce aldilà e la mera brevità della vita. Vedder ammette di essere stato circondato dalla morte durante le registrazioni. La tragedia del World Trade Center l’ha colpito profondamente, da qui la sua partecipazione al Tribute to Heroes a settembre. “Volevo davvero suonare ‘Gimme some truth’ ma alla fine abbiamo deciso di partecipare al processo del dolore. Poi c’è stata la perdita di cari amici, come Layne (degli AIC) e anche John Entwistle è stato un grosso colpo per me, uno shock. E Dee Dee Ramone, anche quello è stato uno shock. E’ quasi incredibile che noi si possa essere così fiduciosi senza essere pietrificati perennemente dalla morte. E il modo in cui guidano a Los Angeles è folle. L’altro giorno in California ho visto questo enorme SUV (sport utility vagon) più grande di un appartamento di New York, e c’era un adesivo di Bush/Cheney sul paraurti, uno della NRA (National Rifle Association) e uno che diceva “Intanto che tu stai suonand, io sto ricaricando.” Che coglione. Così ora mi sento più protettivo rispetto al futuro, ho voglia di continuare e forse anche di affrontare la paternità e questo genere di cose. Mentre nel ’92 mi sentivo come se non avessi nulla da perdere.”

I Pearl Jam (Mookie Blaylock) emersero come una fenice dalle ceneri dei Mother Love Bone nel ’91, e il loro debutto, Ten, riuscì a vendere quasi 9 milioni di copie. A differenza dei più dissonanti Nirvana e dei Soundgarden, Ten aveva radici nel blues tradizionale almeno tanto quanto ne aveva nel punk primordiale e nelle gargantueliche chitarre, che si avvolgevano attorno alle urla di Vedder. Ma invece di dare ai fan quello che si aspettavano dopo Vs. (‘93) e Vitalogy (’94), i membri del gruppo spinsero i loro parametri oltre con il non commerciale No Code nel ’96. Con “solo” poco più di un milione di copie vendute, il seguito del gruppo si ridusse. Ma quei fans rimasti poterono godere di alcuni dei momenti più memorabili come il brillantemente ruvido Yield nel ’98 e nel 2000 il celebrale Binaural (che non è diventato neppure di platino, un milione di copie)Ora il suono dei Pearl Jam è così copiato che le radio pop sono intasate da imitatori meno intelligenti. Mad TV recentemente ha trasmesso uno sketch dove l’attore Michael MacDonald – vestito come Eddie Vedder – appare improvvisamente sul set di un video dei Creed/Calling, massacrando i suoi imitatori (la gag continua con Ray Charles che appare per sostenere che è la sua voce che tutti imitano). Il gruppo ha lasciato il segno in altri modi. Alcuni giovani musicisti come Pete Yorn e Julian Casablancas degli Strokes affermano che i Pearl Jam hanno auto una grande influenza su di loro. “E mi sento piuttosto onorato di questo,” dice McCready, in una chiacchierata separata nel magazzino. “Mi sorprendo sempre quando scopro chi sono quelli a cui piacciamo. Ho sentito una cover di Black fatta dagli Staind e mi sembrava bella. Mi ha fatto sentire bene – abbiamo davvero avuto qualche influenza nelle loro vite.”

Gossard è d’accordo: “Penso sia eccitante quando queste cose vengono fuori e la gente abbraccia dischi come No Code. Perché quando è uscito, noi sapevamo che sarebbe stato più duro farselo entrare in testa – non aveva un singolo da hit. Ma i testi sono tra i miei preferiti tra quelli scritti da Eddie. Penso anche che ci siano anche alcuni testi favolosi su Riot Act , che sono riflessivi e filosofici. Anche se è anche un disco ruvido, vivo e spontaneo.”

“Volevamo davvero catturare il suono di un gruppo che suona in una stanza,” conferma Cameron. “E’ una cosa che non si sente spesso su molti dischi rock. Ma è sempre divertente, come ascoltatore, scoprire quegli strani rumori mentre suona la chitarra – solo per ascoltare l’atmosfera nella sala dove è stata registrata.”

E, aggiunge Ament, non dimenticate il nuovo sfacciato profilo politico dei Pearl Jam. “Prima, le nostre idee politiche erano più dietro le quinte, ma siamo sempre stati piuttosto attivi. Ma volevamo usare questo disco come un forum per lanciare un paio di idee, di come le cose stiano andando sotto la maschera della “Guerra al Terrore” – abbiamo un presidente e un vicepresidente con un sacco di connessioni con l’industria petrolifera, e si scopre che tutti i nostri problemi sono con nazioni che hanno il petrolio. Così Bu$hleaguer è un modo umoristico, molto diretto per dire cosa pensiamo del nostro leader. Il nostro leader senza paura.”

Vedder tratteggia una possibile soluzione in “Love Boat Captain”: “I know it’s already been sung, but it can’t be said enough / Love is all you need, all you need is love” (So che è già stato cantato, ma non è mai abbastanza / L’amore è tutto quello di cui hai bisogno, tutto quello di cui hai bisogno è l’amore). Ci crede davvero? Alza le spalle, indeciso. “Dipende, a volte cambio idea più volte nello stesso giorno. E’ una strana relazione di amore/odio con la gente. Vedi qualcuno può fare qualcosa di grande e vuoi uscire e gridare ‘vorrei che ce ne fossero di più di persone così’ e poi vedi alcune cose terribili. Un mio caro amico è stato assalito e per tutta la settimana successiva a quel fatto ho pensato ‘chi se ne fotte, potete andare tutti affanculo per quanto mi riguarda’.”

Ancora una volta Vedder si tuffa nella sua maglietta e si accende un’altra sigaretta. E lo sguardo lontano nei suoi occhi dice che preferirebbe tuffarsi in acqua nel paradiso della sua isola segreta. Ma, ammette, non è esattamente l’Eden. In un negozio lo scorso Natale, “questa piccola filippina mi ha accusato di aver rubato circa 12 dollari in orecchini. La cosa mi ha fatto incazzare, perché ero appena andato in banca, e anche se avevo un costume da bagno sbrindellato, avevo due carte di credito e un fascio di soldi. Così li ho tirati fuori e ho detto, ‘guardi signora, non devo rubare nulla, vede?’ poi sono andato dal padrone del negozio e ho detto ‘non so se si ricorda di me, ma ho comperato un paio di ukulele qui quattro anni fa, veramente belli.” Il proprietario che aveva una foto vecchia di quattro anni con lui e Vedder appesa dietro la cassa, ripulì il nome dei Pearl Jam. “Ha detto alla signora ‘no! Lo conosciamo! E’ in un gruppo’ e allora lei mi ha guardato e mi ha detto ‘Se sei così famoso perché hai una camicia così brutta?’ Proprio non le andavo a genio a quella signora. E quando ci ripenso, è ancora spiacevole essere accusato di qualcosa del genere solo per il tuo aspetto. Ma ho anche capito che ogni tanto è un’esperienza salutare, il pregiudizio. Specialmente come bianco, e per giunta americano.”
Anche nel Pacifico del Sud, conclude, “fa bene subire dei pregiudizi, fa bene ricordarsi cosa significa.”