Interviste a Eddie Vedder: Gioco per il Successo

Game for fame

The Sunday Mail | 3 Novembre 2002

By Katherine Tulich

Eddie Vedder sta lentamente battendo i tasti di quella che sembra una macchina da scrivere d’epoca. “Sto giusto finendo alcune lettere per degli amici,” dice alzando lo sguardo mentre entro nella stanza. “Non sono mai stato molto a mio agio con i computer.”

Tenendo conto che stiamo seduti nel bel mezzo della capitale dotcom del mondo, a Seattle, Washington – patria di Bill Gates e della Microsoft – il suo affronto alla tecnologia moderna sembra ancora più mirato.

Ma Vedder ha passato gran parte degli ultimi dieci anni a snobbare le convenzioni. Come frontman dei Pearl Jam, è diventato uno dei più grandi enigmi del rock. E non lo ha fatto corteggiando la stampa, ma evitandola deliberatamente.

Per questo motivo è una sorpresa che Vedder sia così desideroso di parlare con i media in occasione dell’uscita del settimo album dei Pearl Jam, Riot Act.

“Abbiamo messo molti confini tra la stampa e noi,” dice, “ma vorrei parlare alle persone che a quanto pare sono nostri grandi fan e che ci chiedono quando faremo il nostro nuovo album e per fare questo abbiamo un solo modo.”

“Mi fa pensare che dovremmo almeno agitare le braccia e dire, ‘Hey, ne abbiamo fatto un altro, dategli un’occhiata se volete’.”

Non c’è dubbio che i Pearl Jam, emersi dalle ceneri delle band grunge della scena musicale di Seattle dei primi anni ’90, hanno dimostrato di essere arguti e duraturi, sopravvivendo ai loro coetanei (Nirvana, Soundgarden, Alice in Chains).

Il loro primo album, Ten, ha venduto più di 11 milioni di copie. Quando hanno realizzato il secondo e terzo disco, Vs. e Vitalogy, avevano forza sufficiente per riscrivere le regole, rifuggendo dai percorsi promozionali convenzionali come i video e i media.

Hanno persino sfidato il monopolista statunitense dei biglietti Ticketmaster, accusandolo di prendere un’ingiustificata percentuale dalla vendita dei biglietti stessi (una battaglia persa quando il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti chiuse le indagini).

Ma entro la fine degli anni ’90, la loro posizione di “troppo belli per essere famosi” si è dissolta un po’o, specialmente nell’era delle promozioni sgargianti che ha prodotto infiniti gruppi pop di ragazzi e ragazze. Le vendite hanno cominciato a scendere.

Il loro ultimo disco in studio, Binaural, ha venduto nel 2000 appena 700.000 copie. Eppure, loro sono riusciti a rimanere un passo avanti.

Per evitare il fenomeno dei bootleg, hanno realizzato 72 registrazioni ufficiali dei concerti americani ed europei del 2000 e del 2001.

Con un cambio radicale dei gusti musicali nell’aria, nel momento in cui la bolla della musica pop comincia ad esplodere, sembra un momento perfetto per una resurrezione importante. Tra l’altro Riot Act chiuderà il contratto di sette album siglato con la Epic, il che vuol dire che il loro futuro è in mano al migliore offerente.

Il Los Angeles Times ha recentemente pubblicato un articolo sul valore della band, sottolineando che potrebbe dipendere tutto dalle loro intenzioni, in particolar modo alla luce della loro consueta avversione per i riflettori. L’articolo continuava affermando, “Questo è un gruppo che potrebbe essere grande come gli U2, ma ha scelto di non esserlo.”

Sbuffando furiosamente una delle molte sigarette American Spirit, Vedder ammette: “Eravamo più popolari di quanto non potessimo sopportare tranquillamente. Così abbiamo deciso di sabotare la nostra carriera e ci siamo riusciti. E penso che siamo molto più felici adesso.”

L’altro fondatore dei Pearl Jam, Stone Gossard, dice: “Penso che stiamo capendo quanto fortunati siamo a conoscerci e ad essere ancora in una band. Siamo a nostro agio adesso e di conseguenza stiamo componendo la miglior musica che abbiamo mai fatto assieme.”

Riot Act è realizzato molto bene, un album rock accessibile con un primo singolo adatto alle radio, I Am Mine, completato da un video. Sembra che i Pearl Jam abbiano deciso di seguire di nuovo le regole – ma, allora, buone vendite e il calore dei media faranno lievitare il prezzo per il rinnovo del contratto.

Negli anni, Vedder ha ottenuto tanti nemici quanti fan. La cinica rivendicazione del suo zelo evangelico sul rischio del successo è soltanto uno stratagemma, e lui ne conosce gli effetti sull’immagine molto più di quanto non voglia ammettere.

Ma non c’è dubbio che Vedder ti avvolga nel velluto con la sua sola presenza.

Le sue parole sono come misurate sentenze, in una calma voce baritonale. Non può evitare una posizione studiata, specialmente sulla politica, ma quando si imbarca in un discorso sulla consapevolezza, si lascia andare a un umorismo autoironico.

Quando commento il suo nuovo taglio di capelli – la cresta sta cedendo il passo a una morbida peluria di corti capelli castani – scherza: “Sai, stavo cercando di affermare qualcosa contro la vanità (con la cresta) e ho scoperto che era una delle cosa più vanitose che potessi fare. Bisogna dedicargli troppo tempo”.

Ammette di aver fatto finalmente pace con i suoi demoni. “Sto prendendo in mano la mia vita. Se non hai basi solide, non sei sicuro che le tue opinioni contino. Non è tanto la paura dei riflettori, quanto il desiderio di preservare un posto vero dove comunicare i tuoi punti di vista e scrivere una buona canzone.”

Riota Act è pieno di riferimenti personali e politici, e c’è anche un triste tributo nella canzone Love Boat Captain, dedicata ai nove ragazzi rimasti schiacciati dalla folla al concerto dei Pearl Jam al Roskilde Music Festival di due anni fa in Danimarca.

“Mi sono isolato dopo quell’episodio, e a tratti sentivo che non c’era via d’uscita dal dolore enorme che noi tutti sentivamo in quel momento,” spiega Vedder.

Definisce Love Boat Captain “quasi una piccola preghiera, un modo per esprimerla nel mezzo di una canzone con ritmo e volume”.

Forse Vedder ha finalmente trovato un equilibrio tra integrità e commerciabilità.

“Le canzoni sono come scrocconi che non pagano l’affitto e prendono semplicemente tutto quello che trovano nella tua testa,” dice, citando il cantautore Tom Waits, “è un bene lasciarle uscire e dire, ‘Ok, adesso vai a fare un po’ di soldi per papà’.”

Riot Act uscirà l’11 Novembre.

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A Riot Of Their Own

Eddie Vedder contro il presidente mentre i sopravvissuti del grunge restano fedeli agli ideali 

NY Daily News | 3 Novembre 2002

By Isaac Guzman

Mentre i Pearl Jam si preparano all’uscita di “Riot Act”, il loro settimo album, la band si ritrova nel bel mezzo di una curiosa distorsione temporale incentrata su Seattle ad opera delle stazioni radio rock. Come se il ruvido grunge sound di cui i Pearl Jam hanno favorito l’affermazione nei primi anni ’90 non fosse mai scomparso.

“I Am Mine” è uno dei singoli nella Top 10 della classifica rock moderno di Billboard. Si divide l’onore con il postumo “You Know You’re Right” dei Nirvana e canzoni dei Foo Fighters (con l’ex Nirvana Dave Grohl alla batteria) e degli Audioslave (guidati dall’ex cantante dei Soundgarden Chris Cornell).

Di sicuro i Pearl Jam sono l’unica band importante di Seattle sopravvissuta intatta agli anni ’90. E “Riot Act” indica che l’ultimo importante veicolo di rock alternativo è ancora devoto agli ideali degli inizi, musica che non concede nulla alle tendenze e affronta temi sociali con una profondità che va oltre il limite dei gruppi rock attuali.

“Riot Act” è il primo album con nuovo materiale dopo il disco uscito due anni e mezzo fa, “Binaural”. Tra i due dischi, il gruppo, schivo con la stampa, ha guadagnato parecchia attenzione, sia voluta che indesiderata.

Un punto d’attenzione è stata la decisione dell’anno scorso di realizzare 72 album dal vivo, a testimonianza del loro precedente tour mondiale. Mentre la mossa è stata accolta con iniziale sbigottimento, adesso viene salutata come una nuova tendenza commerciale del mondo discografico, in grado di placare i fan più accaniti ed evitare bootleg di cattiva qualità che venderebbero comunque moltissimo.

L’altro evento è stato tragico, ma è diventato uno dei temi dominanti di “Riot Act.” A giugno 2000 nove fan morirono quando la folla si spinse violentemente contro il palco durante il concerto al Roskilde Music Festival in Danimarca.
Quei “Nine friends we’ll never know” (“Nove amici che non conosceremo mai”) è presente nella canzone “Love Boat Captain,” e le immagini della perdita e della mortalità dominano l’album in canzoni come “Ghost”, “I Am Mine” e “Thumbing My Way.”

“C’è tutto, dall’avere un padre che muore quando sei un bambino a quando nove persone muoiono a Roskilde, fino all’osservazione dei fatti dell’11 settembre,” dice il cantante Eddie Vedder. “Ogni anno perdiamo un po’ di gente a cui teniamo, gente che stava dando qualcosa al pianeta. È una delle cose che sembrano piene di significato quando ti siedi a scrivere.”

L’altra preoccupazione della band è la crescita di quello che appare essere un abisso tra le nazioni ricche e tutte le altre. È un andamento del quale Vedder accusa il presidente Bush di incoraggiare in “Bu$hleaguer” e “Green Disease.” Descrive il presidente come un “confidence man” (“un truffatore”) che sta “drilling for fear” (“allenando alla paura”).

“Lui si vanta di essere un rappresentante della gente e allo stesso tempo un ragazzo con cui poter andare a prendere una birra,” dice Vedder. “Ma rappresenta soltanto gli interessi delle multinazionali in maniera assoluta. È per questo motivo che prometto il mio supporto a Ralph Nader.”

Sostenere Nader è difficilmente il tipo di brillante posizione a cui la maggior parte dei gruppi rock vorrebbero essere associati. Ma vista dopo la decisione di non fare video promozionali o provare (senza successo) a sfidare il controllo sul mercato dei biglietti dei concerti di TicketMaster, il nobile idealismo del gruppo è in sintonia con i suoi fan.

“I Pearl Jam sono l’unico gruppo importante ancora produttivo uscito fuori dal movimento di Seattle,” dice Howard Kramer, direttore associato della Rock and Roll Hall of Fame. “Loro hanno sfondato su una vastissima scala e i loro fan sono fedeli perché credono in loro.”

Ma la questione aperta è se la musica dei Pearl Jam, intrisa dei classici del rock degli Who e Led Zeppelin, affascinerà la nuova generazione allevata con una mistura aggressiva di rock e rap.

Questo potrebbe parzialmente spiegare perché le vendite dei loro dischi sono scivolate dalle 8,9 milioni di copie del loro debutto del 1992 “Ten”, alle 795,000 di “Binaural”. E il successo radio di “I Am Mine” potrebbe risultare solo un interesse passeggero, dice Gary Cee, direttore musicale di WLIR(92.7 FM).

“Con qualsiasi cosa dei Nirvana o dei Pearl Jam ottieni questo enorme fattore di curiosità,” dice Cee. “Ma ora il fattore curiosità si è spento. La giuria è fuori nella nuova generazione che segue Korn e Limp Bizkit.”

Ma il bassista dei Pearl Jam Jeff Ament vede il calo delle vendite come una fonte di libertà. A suo giudizio la band si è scontrata con il giudizio dei media agli inizi degli anni ’90 e questo li ha portati alla decisione di non produrre video, un quasi completo silenzio stampa e un approccio molto diverso dalla cultura pop.

“Ci siamo tirati indietro abbastanza decisamente dopo il secondo disco,” dice Ament. “Era come stare nell’occhio del ciclone e non riuscire a pensare in maniera chiara. Ed ha sentito molto questa situazione. Ma una volta tirati indietro, ogni cosa è diventata più gestibile. Non stiamo vendendo lo stesso numero di dischi, ma la gente non ti riconosce ogni tre metri per strada. È quasi meglio che vendere tanti dischi.”

Quando il suono pesante del rock alternativo ha perso l’impatto commerciale a favore di fenomeni pop come Britney Spears e i Backstreet Boys, Vedder dice di non aver mai pensato allo stato del rock, ma di aver adottato un approccio “abbassa la testa e proteggiti” che gli ha permesso di continuare a sentire band coraggiose – come Sleater-Kinney e Melvins – semplicemente ignorando i prodotti teen pop. Ma ricorda di aver visto una volta i Backstreet Boys o gli ‘N Sync in televisione.
“Mi ricordo di aver visto cinque ragazzi, quindi 
mi ci potevo relazionare,” dice Vedder. “E ho provato a immaginare i nostri volti al posto dei loro e vedevo noi a ballare come loro. Ho pensato, “Dio, sono così grato che non dobbiamo passare il nostro tempo a provare passi in uno studio di danza.’ La sola idea mi sembrava un inferno.”