Intervista ai Pearl Jam da Kerrang! | Novembre 2002

Nice Guy Eddie

Kerrang! | 16 Novembre 2002

By Ben Mitchell

“Ho letto di quel ristorante sulla luna. Ne sai qualcosa? Il cibo è ok, davvero non è male, ma non c’è atmosfera.”

Eddie Vedder racconta una barzelletta. Non è la migliore mai sentita, ma nonostante tutto è una barzelletta. Non è così importante cosa viene raccontato, quanto chi lo racconta. La voce popolare dice che il leggendario, intenso cantante dei Pearl Jam non fa cose buffe. Rabbia, sì, serietà, certamente. Ma umorismo? Questo è un uomo con una reputazione di persona piuttosto seria.

“Serio?” dice, “ahhh sto cercando di pensare a una risposta divertente, ma non ci riesco, così in effetti la risposta è sì, sono serio (ride). Sai, dipende, direi di no, ma con una faccia onesta. Penso che a questo riguardo Seattle sia davvero un buon posto. Ci controlliamo a vicenda. Se fai un video un po’ fantasioso quando incontri gli amici ti senti come se indossassi un tutù rosa”.

Nell’anonimo magazzino nel centro di Seattle che serve come sala prove e deposito, si sono riuniti i cinque membri dei Pearl Jam per discutere del loro settimo album, Riot Act. Entrando da una porta laterale c’è un pezzo di cartone appeso ad un muro con “Parking Nazi Letters” scritto col pennarello nero che suggerisce che anche questo gruppo è qualche volta costretto ad aiutare l’economia locale contro il proprio volere. Le assi del pavimento sono parzialmente coperte da tappeti, lo spazio centrale è occupato da una batteria di fronte a un muro di chitarre e tracolle che aspettano di essere riunite.

Più in là c’è una piccola cucina dove Jeff Ament sta preparando un thé. Oggi il bassista indossa degli shorts di marca sformati e calze dell’NBA, ma non il suo familiare cappello.

In un angolo, diviso da scaffali e scaffali di equipaggiamento – metri e metri di cavo accuratamente arrotolato, pedaliere, pile di amplificatori, canestri e un tavolo da ping-pong piegato – c’è il logo del loro primo album del 1991, Ten. Anche se un paio di lettere mancanti hanno ridotto questa preziosa reliquia del rock a “ARL JAM”.

Eddie Vedder è seduto su un divano nella stanza senza finestre dove ogni tanto scrive i testi delle canzoni e sbriga la corrispondenza – una lettera appena finita a Pete Townshend degli Who è piegata accanto a lui. La sua macchina da scrivere e un pacchetto mezzo vuoto di sigarette American Spirit giacciono sul basso tavolino di fronte a lui, una chitarra acustica è sul pavimento. La sua stretta di mano è ferma, ed è accompagnata da un sorriso di benvenuto e da alcune educate chiacchiere.

“Di solito qui assomiglia molto di più a Londra di quanto non sia stato negli ultimi due giorni” dice riferito al brillante sole che splende fuori.

La voce di Vedder ha un tono basso ed è calda, il suo discorso è punteggiato da “yeah” quando ha bisogno di tempo per pensare. La prima cosa che noti del trentasettenne cantante sono i suoi capelli, l’acconciatura alle spalle da surfista, recentemente ridotta a un taglio alla moicana, ha ora lasciato il posto ad un accurato taglio corto.

“Beh, con l’ultimo taglio di capelli me la sono proprio cercata. Mi sono garantito un’ispezione accurata su ogni aeroplano che ho preso. Ho anche pensato che potesse dar adito a interpretazioni politiche.”

In che senso? 
“Durante le interviste potrei dire qualcosa che un ragazzo vorrebbe far sapere al padre: “cosa ne pensi di questo tizio?” e il padre non ascolterebbe, reagirebbe solo al ridicolo taglio di capelli.”

Così questo è il tuo look “Salve genitori”?
“È solo qualcosa di un po’ più conservatore (ride)”

Ti vedi ancora come qualcuno che può esercitare questo tipo di influenza?
“Beh, è abbastanza semplice diventare modesto. Io non sono altro che il padrone di un cane con una macchina da scrivere e una chitarra, niente di più. È salutare. Voglio dire, cos’altro posso fare? Non sarebbe paralizzante pensare (batte sulla macchina da scrivere): “come reagiranno a questo e devo dire quello?”

I Pearl Jam sembrano avere superato Seattle
“Più che superato, siamo sopravvissuti a Seattle.”

Giusto. Parlando di Seattle ora alla maggior parte della gente viene in mente “Frasier” (sit-com americana NDT)
“Lo so. E pensare che una volta eravamo una tale forza.”

Undici anni dopo Ten, l’atmosfera attorno ai Pearl Jam è molto rilassata, un contrasto stridente con l’introspezione provocata dalla frenesia dei media nei giorni del grunge. Anche se l’influenza dei gruppi di Seattle non può essere misurata solo con le vendite – Ten ha venduto più di 11 milioni di copie, superando Nevermind dei Nirvana di un milione – si può dire che l’attrazione dei Pearl Jam è diventata più selettiva, principalmente per loro scelta.

A partire dal loro secondo album, Vs. del 1993, che nella prima settimana vendette poco meno di un milione di copie – raggiungendo poi il traguardo dei sette milioni – il gruppo ha abbandonato la rabbia da stadio a favore di un atteggiamento più sperimentale che soddisfa sia loro che quelli che hanno continuato a seguire la loro evoluzione.

“Abbiamo fatto abbastanza bene” dice Vedder. “Siamo riusciti ad arrivare a un livello che ci soddisfa, dove possiamo controllare le cose, dove siamo ancora eccitati da quello che facciamo.”

“La musica è andata in determinate direzioni, e la gente può identificarsi o meno con un determinato disco che abbiamo fatto,” dice il chitarrista Stone Gossard. “Non penso che nessuno di noi cambierebbe nulla nei dischi che abbiamo fatto.”

Allora chi pensate che siano i vostri fan ora?
“Non ci pensiamo molto. Abbiamo fatto un disco e siamo felici che alla gente piaccia, ma in termini di definire chi sia questa gente… io non ne ho idea.”

“Penso che vadano dai 16 ai 50 o 60 anni,” aggiunge il chitarrista Mike McCready. “Almeno questo è quello che vedo quando guardo il pubblico ai concerti.”

Come il suo predecessore, Riot Act sembra fatto per coccolare il loro pubblico più fedele, mentre rimane indifferente ai non convertiti. Seguirà un tour – probabilmente tutto esaurito – e dopo due anni, un nuovo album. È una routine che si ripete da Vitalogy (con 5 milioni di copie vendute l’ultimo grande successo commerciale del gruppo; da allora le vendite si sono attestate intorno al milione).

Con l’eccezione dei Mudhoney, tutti i gruppi contemporanei ai Pearl Jam si sono o auto-distrutti oppure si sono sciolti e hanno preso altre strade. L’ex batterista dei Soundgarden, Matt Cameron suona col gruppo fin dal 2000 con Binaural. Sembra che i Pearl Jam occupino sempre più lo stesso spazio del loro eroe e amico Neil Young – sempre pronti alla sfida sui dischi, un grande successo dal vivo, abbastanza sicuri finanziariamente da potersi permettere di ignorare le pressioni esterne, anche se molto attenti a quelle interne.

“L’unica pressione che sentiamo è quella al nostro interno,” conferma Ament. “Se qualcuno ha scritto una canzone tu desideri solo avere la tua parte della canzone per farla nel modo migliore. Ogni volta che torniamo in studio a suonare vogliamo impressionarci l’un l’altro, far vedere all’amico che abbiamo lavorato duro, così la pressione esterna non sappiamo neppure che esista.”

Similmente anche il livello di attenzione su Vedder è diminuito, così come le occasionali frizioni all’interno del gruppo.

“Penso che questo abbia a che fare col fatto di prendere le cose un po’ meno seriamente e di essere diventati tutti un po’ meno paranoici,” dice Ament. “Siamo riusciti a superare tutto parlandone. La cosa più strana era quando non ne parlavamo, ognuno partiva per la sua piccola tangente… la storia di un tipico gruppo rock, e anche la storia di una tipica relazione. Se non riesci a comunicare, la merda comincia a volare. Fortunatamente, abbiamo cominciato a parlare prima che ce ne fosse troppa in giro.”

Quando bisogna prendere decisioni per il gruppo, Vedder ha ancora l’ultima parola.
“Ci sediamo in una stanza e cominciamo a tirar fuori delle idee,” Spiega Gossard. “Alla fine, Eddie ha molta influenza sulle decisioni da prendere. Il fatto che lui si trovi a suo agio con un’idea ha un grosso peso – ed è giusto che sia così, lui è la forza centrale della musica del gruppo, e c’è sempre una grossa pressione sul cantante.”

“È il cantante,” dice semplicemente McCready. “Lo accettiamo e ci va bene così.”

Vedder però non la vede allo stesso modo.

“Tutti noi abbiamo molte idee e abbiamo capito che è meglio se scegliamo le nostre battaglie, siano esse gli arrangiamenti piuttosto che l’artwork,” afferma.
“La comunicazione è molto migliorata, tutti abbiamo imparato che è meglio capire come suonare con lo scopo finale di suonare per la canzone che non per il proprio ego.”

Comunque tu hai l’ultima parola, anche se…
“Con i testi forse, ma probabilmente è l’unico caso. E comunque accetto sempre suggerimenti.”

Diresti che sei una persona che si impone?
“(Lunga pausa) Beh… (con una voce severa) preferirei che tu non mi facessi questa domanda.”

Ok, scusami. Dovremmo passare a un altro argomento?
(Ridacchia, felice di avermii ingannato).

Ok, mi hai fregato. Hai mai pensato all’analisi?
“Il gruppo? Penso che siano grandi! Davvero, ho abbastanza amici intelligenti e mi sento bene a parlare con loro di tutto.”

Questo non è un atteggiamento molto americano.
“Lo so, ma è più economico e posso anche bere. È normale farsi un cocktail durante la terapia? Sarebbe una grande idea, comunque fa bene sapere che c’è.”

Pensi che la gente sia cauta con te?
“Alcuni dovrebbero. Non è una cattiva reputazione da avere. Non ti piace essere scocciato dovunque. Non mi dà fastidio se qualcuno viene da me una volta, ma alcune persone continuano a tornare.”

E all’interno del gruppo?
“Beh, spero di no. Siamo abbastanza bravi a comunicare.”

Guardandoti indietro, come ti sembra di esserti comportato?
“Abbastanza bene. L’unico grande rimpianto ha a che fare con la cosa peggiore che ci sia capitata, Roskilde (il festival danese dove nove persone sono morte a causa della spinta delle 50.000 persone che assistevano al concerto il 30 giugno 2000). Non ci sentiamo responsabili delle sicurezza quella notte, ma ci sentiamo responsabili di aver chiesto alla gente di venirci a vedere in Danimarca partecipando a quel festival, di non aver suonato in posti più piccoli. Abbiamo accettato di suonare in quattro o cinque festival in Europa – a essere onesti – per coprire parte dei costi del tour. In questo modo saremmo potuti tornare a casa con un po’ di soldi. In genere quando si tratta di soldi diciamo di no, non lasciamo che sia un fattore. In questo caso non l’abbiamo fatto ed è la cosa che rimpiango.”

Anche se molto è stato fatto per aggiungere pressione su Vedder, sia come icona che come portavoce – costantemente indicato dalla stampa, nei primi anni del gruppo, come portavoce dei bambini di famiglie distrutte e con un seguito, largamente immaginato, di frequentatori di caffè socialmente impegnati – è stato Mike McCready a soccombere prima, e a sconfiggere dopo, la familiare tentazione chimica disponibile alle rockstar con milioni di dischi venduti.

“Sono pulito e sobrio ora,” dice con sincera dignità. “Lo sono da due anni e otto mesi. Vado avanti un giorno alla volta, faccio quello che devo fare e questo è il mio obbiettivo principale. Ogni cosa è migliore ora perché mi prendo cura di me stesso. In passato la mia vita è stata un inferno che mi ero creato con le mie mani: droghe, bere e qualunque cosa. Ora non è più così. Mi fa apprezzare la vita in generale. Così ora la cosa più importante nella mia vita è restare pulito e sobrio. Deve essere così perché altrimenti tutto mi crollerebbe addosso. Nell’ultimo disco ero abbastanza eccitato nel suonare quelle canzoni, ma non eccitato come con queste. Quando abbiamo fatto l’ultimo disco ero abbastanza andato”.

Riot Act è l’ultimo disco con questo contratto, anche se certamente ci saranno nuovi dischi quando tutte le opzioni saranno considerate, le negoziazioni risolte, e vari problemi di percentuali sistemati. Per ora comunque il gruppo rimane una preoccupazione di una grande etichetta, e così il risultato è protetto dalle tipiche scoccianti misure di sicurezza di una grande etichetta. Al vicino Edgewater Inn – famoso per essere stato l’albergo preferito dei Beatles, noto per i presunti giochi dei Led Zeppelin con una groupie e un pesce rosso – il nuovo album è disponibile per un breve ascolto con un Discman numerato. Il pulsante di espulsione è bloccato con niente di più tecnologico che della colla attaccatutto. Anche se questo impedisce l’ascolto di Riot Act al giusto volume e per il giusto tempo, la paura che il disco circoli su Internet è comprensibile.

Comunque anche il foglio con i testi deve essere restituito prima di lasciare il magazzino del gruppo. Misure estreme, particolarmente per un gruppo che nel passato si è sempre contraddistinto per l’atteggiamento anti-industria.

“Alcuni elementi sono contraddittori,” dice Gossard. “Mi trovo un po’ a disagio con queste misure, ma anche noi siamo un’impresa, e per quanto amiamo suonare e stare insieme dobbiamo anche vendere qualche disco. Penso che al gruppo vada bene che il disco circoli per il minor numero di mani prima che venga pubblicato – basta una sola persona che dica ‘Chissene frega, mettiamolo su internet e vediamo cosa succede.’ Così proviamo a mantenere il controllo. Nel futuro, se si dimostrerà impossibile farlo, forse il gruppo farà soldi solo andando in tour e lascerà andare la musica. Non si sa mai, forse abbracceremo questa filosofia, ma per ora non l’abbiamo ancora fatto.”

Anche se non si sa ancora con chi firmerà – o rifirmerà – il gruppo, è certo che continuerà a fare dischi.

“Dobbiamo trovarci e fare dischi, questa volta è stato ancora più divertente che in passato, e siamo rimasti amici,” dice Gossard.

Compagni fin dall’adolescenza, che si divertono ancora a giocare a tennis insieme quando non sono impegnati col gruppo (“Stone sta vincendo di più ultimamente,” dice McCready. “Ma facciamo schifo entrambi”). Matt Cameron è occupato dalla propria famiglia, anche se ama andare in moto quando ne ha l’occasione. E ad Ament piace “praticamente ogni sport”.

Eddie Vedder, nel frattempo, si dedica al suo eterno amore per il surf, viaggiando alla Hawaii. Compresa una sessione recente con il campione del mondo Kelly Slater sulle notoriamente brutali onde della Waimea Bay nell’isola di Oahu.

“È stato intenso,” dice il cantante. “Le creste erano alte circa 10 metri, ma non sono mai stato così vicino a vedere Hendrix dal vivo. Ho guardato le foto di queste onde da quando ero un bambino, ma esserci vicino e sentirle è stato piuttosto eccitante.”

Allora com’è andata?
“Ne ho quasi presa una alla fine. Sarà per la prossima volta. Kelly le prendeva tutte – non me ne ha lasciata nessuna! Mi ha chiesto se ne volevo prendere una, ho cominciato a inseguirla ma, nonostante tutti i vantaggi, parcheggi per hanndicappati e così via, ho deciso di lasciarla andare.”

La vita sembra molto più tranquilla ora per te. Non ti mancano mai i primi tempi, quando milioni di fans guardavano a te per avere risposte?
“No. Voglio dire, egoisticamente, che cosa me ne viene?”

Fa vendere dischi
“Fa vendere dischi, ma in certi momenti. Solo col successo del primo disco, anche monetariamente, abbiamo fatto più soldi di quanti avremmo mai sognato di farne in una vita intera.”

Così davvero non ti manca quella febbre di 10 anni fa?
“No.”

Non ci credo
“Mmmm, come posso dimostrarti che è vero?”

Va bene. Lo trovo difficile da credere
“Si, ho una Plymouth del ’64 fuori. Ce l’ho da 10 anni. È un po’ conciata. È l’unica macchina che ho a parte il mio vecchio camioncino.”

Niente Porche?
“(Ride) No. Non me la sono ancora fatta.”

Perché no? Perché non godersi i soldi?
“È per questo che ho la Plymouth. È una cabrio, tolgo il tetto nelle rare giornate di sole a Seattle. Guido fino a casa e nessuno mi riconoscerà.

Se non ti fermi ai semafori…
“No, no! Posso fermarmi ai semafori, ci sono dei ragazzini di 10-15 anni che passano davanti alla macchina e vedono solo un vecchietto con una vecchia macchina. Ai tempi facevo la stessa strada e c’era gente che rischiava la pelle cercando affiancarsi alla macchina per gridarmi qualcosa. Pensavo, ‘Se non stai attento ci lascerai le penne finendo nel culo di quel camion”. Queste situazioni di panico proprio non mi mancano.