He’s with the band: Intervista a Ed Vedder

Eddie Vedder è il frontman dei Pearl Jam da quasi due decenni e non intende smettere

The Australian | September 12, 2009
Traduzione a cura di Irene

Martedì sera, Shepherd’s Bush Empire, Londra. Duemila membri della Jamily non riescono a credere alla loro fortuna.

Teste all’indietro, pinte di birra in bicchieri di plastica, i loro cori di massa minacciano di coprire la voce naturale dell’uomo principale dei Pearl Jam, Eddie Vedder, che in vari modi sorride, tende l’orecchio e beve da una bottiglia di Pinot nero mentre la folla recita i suoi testi parola per parola.

Tra pochi giorni le superstar dell’alt rock di Seattle suoneranno alla O2 Arena di Londra, uno spazio da 20.000 posti. Stasera, però, è solo per il fan club dei Pearl Jam.

“Hey, conosco la tua faccia,” Vedder si tira la barba e indica la prima fila. “E anche la vostra; non siete italiani?” Come i Deadheads, che in passato seguivano i Grateful Dead per tutti gli Stati Uniti, i sempre fedeli della Jamily non pensano ad altro che a viaggiare per migliaia di chilometri per vedere i propri eroi in carne ed ossa. È una sorta di clan: da quando il movimento grunge ha lanciato nel mainstream Ten, il loro debutto del 1991, i Pearl Jam hanno attirato ardenti ammiratori da quasi vent’anni.

Quando la band si lancia in The Fixer, il primo singolo dal loro nuovo, nono album in studio, Backspacer, non c’è da meravigliarsi, forse, che tutti conoscano già le parole.

Influenzato da punk, heavy metal e indie rock, il grunge è stato il grande movimento musicale dei primi anni ’90. Band come Nirvana, Soundgarden e Pearl Jam diedero l’avvio al grunge a Seattle, nello stato di Washington, una città secondaria trascurata da un’industria musicale concentrata su Los Angeles e New York. Destrutturazione e chitarre distorte, con testi pieni di inquietudine cantati da frontmen con i capelli lunghi che volevano colpire piuttosto che divertire, il grunge non era un’ovvia macchina da soldi. Ma poi le grandi case discografiche reagirono e arrivarono sventolando i libretti degli assegni, cambiando il corso della musica pop.

I Pearl Jam sono sempre stati più rock ‘n’ roll degli altri. Il cantante dei Nirvana Kurt Cobain può averli liquidati schernendoli come un successo commerciale (Ten ha troppi riff di chitarra, apparentemente), ma è l’ultima grande band grunge rimasta.

Il suo suono accattivante ha venduto 60 milioni di dischi ad oggi: ci sono le chitarre elettriche infiammate di Vedder, Stone Gossard e del tatuato Mike McCready; i martellanti riff di basso di Jeff Ament; gli inventivi pattern di batteria dell’ex Soundgarden Matt Cameron. Ci sono i testi che parlano di amore e solitudine, libertà e individualismo, politica e ambiente.

E poi c’è Vedder. Il carismatico 44enne ha sempre avuto una relazione simbiotica con i fan dei Pearl Jam. Abbastanza macho per piacere agli uomini (sul palco sembra più alto dei suoi 170 cm) e abbastanza surfista “figo” per piacere alle donne (da bambino ha fatto il modello), estrae ogni grammo di emozione dal suo ruvido baritono; questi sono testi, si sente, che ha vissuto, e che sta vivendo. Il suo linguaggio del corpo è passionale allo stesso modo; braccio destro in aria dietro di lui, capelli castani schiariti dal sole che gli cadono sul viso, si inginocchia con l’asta del microfono. Quando era più giovane e selvaggio faceva stage dive e crowd surf. Ora non lo fa più.

“A un certo punto ti rendi conto che hai delle responsabilità che contrastano con il tuo bisogno di adrenalina” ha detto Vedder – padre di due figlie piccole avute dalla sua compagna, la supermodella Jill McCormick. “Non so come spiegherò (alle mie figlie) le foto di me appeso ad una trave a 30 piedi (9.1m) sopra la folla, ma sono contento di aver fatto cose più spericolate a vent’anni”.

Il giorno dopo il concerto – con un’apparizione di Ronnie Wood, il chitarrista dei Rolling Stones, che ha suonato in All Along the Watchtower – Vedder è di buon umore. Vestito in stile surf, con una camicia di flanella, pantaloni a ¾ color kaki, scarponcini e splendidi calzini bianchi, è impegnato a scrivere su un notebook quando entro nella suite dell’hotel nel centro di Londra prenotato dalla Universal, la casa discografica che distribuisce Backspacer fuori dagli USA.
Quando alza lo sguardo, i suoi occhi blu sono amichevoli; il viso lievemente segnato dal jet lag e dall’alcool. “Bere aiuta la performance” dice con un sorriso ironico. “Assolutamente sì. Nel corso degli anni è diventato una sorta di strumento. Ho fatto degli show senza bere ma avevo sempre la sensazione che tutti gli altri si divertissero mentre io stavo solo lavorando”. Gli racconto che mio fratello è stato al loro concerto di Melbourne nel 2003 e lui era, a quanto dice, molto ubriaco in effetti.

“Ah, sì.” Fa cenno di sì con la testa. “Succede ogni tanto. A volte dipende dalla temperatura del posto. Ma ieri sera avevo un tale jet lag (la band è volata in Gran Bretagna dal Canada) che non ho sentito niente”.

Ieri sera, Neil Finn, buon amico di Vedder, ha tenuto uno speciale concerto per il suo progetto 7 Worlds Collide dall’altra parte di Londra. “Ho ricevuto un suo messaggio proprio prima di salire sul palco. Stiamo facendo la stessa cosa oggi”, dice alzando le spalle e indicando il mio registratore.
Il figlio cantautore di Finn, Liam, di 26 anni, aprirà tutti i concerti del prossimo tour dei Pearl Jam in Australia e Nuova Zelanda, insieme a Ben Harper, il cantautore californiano molto amato in Australia.

“Liam aveva 11 anni quando Neil lo portò a vederci ad Auckland; è diventato un musicista incredibile. Neil è una forza positiva”, aggiunge Vedder, strizzando l’occhio. “È un grande esempio di come si possa bilanciare famiglia e lavoro. Cosa che dovrebbe essere semplice ma sfortunatamente non sempre lo è”.

Bere sul palco non impedisce a Vedder di voler essere al meglio. Idem per i Pearl Jam, che hanno abbracciato diverse cause, dalla campagna Rock the Vote alla diffusione di informazioni sul morbo di Crohn (di cui soffre McCready) alla battaglia contro la fame nel mondo (durante il loro ultimo tour Australiano a Novembre 2006, Vedder ha raggiunto sul palco Bono degli U2 al concerto Make Poverty History di Melbourne per una versione di Rockin’ in the Free World di Neil Young). Vogliono lasciare più di un’eredità musicale: “Vogliamo dare alle persone qualcosa in cui credere. Tutti noi abbiamo avuto delle band che ci hanno dato questo”.

Per l’adolescente Vedder cresciuto a San Diego, in California, la “fede” arrivò sotto forma della leggenda inglese The Who, il cui album seminale del 1973 Quadrophenia – un’opera rock raccontata da un’angosciata prospettiva adolescenziale – offriva una colonna sonora su cui suonare la sua chitarra.

Le cose non erano come sembravano: primo di quattro figli, Vedder è cresciuto credendo che il suo patrigno, un avvocato, fosse il suo padre biologico. Finché non è diventato il Vedder che ora collabora con i musicisti che erano i suoi idoli 20 anni fa, e che sembrano ricambiare il rispetto. Springsteen gli ha dato suggerimenti sulle performance. Il vecchio scontroso Young è diventato così familiare che i Pearl Jam lo chiamano Zio Neil.

“Così in questo modo impari di più sulla musica e la quarta dimensione di tutto” dice Vedder con animazione. Quarta dimensione? “Al di fuori di tutto questo”. Fa un ampio gesto con il braccio indicando tutta la stanza.

“Oltre ai dischi, oltre ai concerti, oltre alle interviste e ai film” – Vedder ha scritto la colonna sonora acustica di Into the Wild che ha vinto il Golden Globe nel 2008 – “devi vedere l’essere umano dietro a tutto questo”. Fa una pausa e sospira. “Queste cose puoi gestirle solo attraverso la tua interiorità”.

L’albero della Jamily ha molti rami. Ma per i fan dei Pearl Jam Vedder è la stella in cima. Sottolinea entusiasticamente il modo in cui molti dei loro fan abbiano fatto proprie le cause della band: fare pressione per la responsabilità delle aziende, votare per il cambiamento (Democratico), fare attivismo di base a favore di pace, uguaglianza e amore.

Cantando in coro tutto il tempo. “Sì, non è incredibile?” dice Vedder, contento. “Mi piace pensare che visto che conoscono tutte le parole, tutto il contenuto, ne assorbano anche il significato. Così anche se il volume è alto e la voce è mescolata alla batteria e alle chitarre e al resto, chi non conosce le canzoni ne sentirà comunque l’impatto”.

Ieri sera i Pearl Jam hanno suonato 26 canzoni in uno show di 2 ore e mezza, ma ne hanno dovute lasciar fuori molte. “È un bel problema se non hai il tempo di suonare tutte le canzoni più amate. Variamo sempre la combinazione”.

Vedder mostra un gran sorriso. “Molta gente viene a più di un concerto, comunque” dice. “Dopo tre show di solito hai sentito tutto”.